Ex figlio
- Autore: Saša Filipenko
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: E/O
- Anno di pubblicazione: 2022
Con Nastja tutto a posto…Te l’ho detto, mi pare. No? Ci siamo sposati da poco…Lei dice che non mi sta mai bene niente, ma scusa, Cysk, di che cosa dovrei essere contento? Eh? Sai cosa ti dico? E’ un bene che non vedi cosa succede. Gente che finisce sottochiave come se…Non so…Come se un qualche domatore dello zoo avesse scambiato le persone per bestie e le distribuisse fra le gabbie: uno qui, l’altro là (…) se dici qualcosa di sbagliato, o finisci in gabbia o te le suonano sotto casa. Non ci sono altre opinioni in questo paese.
Il Paese imbavagliato, scenario propedeutico di Ex figlio (Saša Filipenko, edizioni e/o, 2022. Traduzione di Claudia Zonghetti) è la Bielorussia: formalmente una repubblica presidenziale, di fatto una nazione transitata dal giogo imperialista dell’Unione Sovietica a quello egotista del dittatore Aljaksandr Lukašėnka, al potere dal 1994.
Ex figlio è un romanzo-matrioska (lo comprova la lunga “nota di traduzione” finale) in cui coabita senza forzature una congerie di stratificazioni: storiche, sentimentali, socio-politiche, persino musicali, intrinseche alla nazione, e più in generale, caratterizzanti le nazioni post-sovietiche (chi ha orecchie troppo ingenue per intendere almeno provi a intendere).
Sorvegliato da frotte di ironia mai fine a se stessa, Ex figlio incide così anche negli ambiti della denuncia e del coraggio civili (Filipenko ha abbandonato Russia e Bielorussia e adesso vive in Europa).
C’è anche da dire che se questo romanzo fosse un colore, sarebbe sicuramente il grigio.
Il grigio delle vite rapprese che vi abitano dentro. Il grigio di vite illuse, disilluse, quindi represse. Il grigio afasico della non-vita: da un parte il coma decennale del protagonista dall’altro il coma esistenziale di un popolo distratto dal mito del benessere economico, oppure piegato da sorveglianza e punizione di regime: bastonate, carcere, se non addirittura la morte per chi osa pensarla diversamente dal governo (la Repubblica di Bielorussia è il solo paese europeo dove vige ancora la pena di morte).
La trama è emblematica, vagamente sui generis, e va segnalata, salvo il finale perché così è bene che si usi: Cysk è uno studente di sedici anni, studia musica invero senza impegno eccessivo, e un brutto giorno entra in coma per uno scherzo del destino: schiacciato da una folla colta dal panico all’ingresso della metropolitana.
È il 1999: in Bielorussia governa già Lukašėnka, si sogna in grande, si sopravvive in piccolo, ma questo non c’entra col fatto che mamma, patrigno-medico, infermieri, fidanzata e quant’altri non confidano affatto nel risveglio di Cysk.
A crederci contro ogni evidenza, solo la nonna, che per anni (dieci) gli parla ininterrottamente, si accalora se solo si avanza l’ipotesi di "staccare la spina", accudisce Cysk come può trasferendosi in pratica al suo capezzale ospedaliero.
Per contrappasso la donna morirà proprio la vigilia del giorno in cui Cysk riprende conoscenza. Per il ragazzo, ormai ventiseienne, la consapevolezza della realtà circostante avverrà per gradi e per brutte sorprese, svelando una nazione in cui niente è cambiato. In altri termini il suo Paese è stato in coma più o meno come lui e, cosa peggiore, non si è ancora ripreso: identico il presidente, identico il grigiore, identiche la repressione, la mancanza di coraggio che fa il paio con la mancanza di libertà. Per il protagonista (e conseguentemente per il lettore) ne discende una manciata di riflessioni grandi così: fino a che punto ha senso la protesta?
Credere o non credere, prima ancora che sperare, in un cambiamento che esuli dallo sterile cambiamento di status anelato dalla maggioranza dei bielorussi? Il benessere coincidente col benessere consumista con cui il capitalismo occidentale ha abbagliato l’Est europeo.
C’è stato un momento in cui voleva un bambino. E io pure. Lo volevo davvero. Lo volevo moltissimo. Un maschio. Lo voleva tanto anche lei. Abbiamo iniziato a provarci…e ci abbiamo provato e riprovato, ma niente, non veniva (…) Non sembrava che volesse lasciarmi, e nemmeno credo che sia questo il motivo per cui l’ha fatto. Non ci si lascia per una cosa simile. È assurdo. Non ci si lascia perché si vogliono dei figli. Ci si lascia per qualche stronzata. E infatti m’ha lasciato perché non potevo darle dei gioielli, non perché non le ho dato un figlio. Se le avessi fatto dei regali, se avessi avuto una macchina nuova e un bell’appartamento, sarebbe rimasta con me tutta la vita.
Acume, amarezza, volontà di denuncia, sono le cifre stilistiche attraverso le quali Saša Filipenko sorregge una trama a sua volta acuta, dolente, sarcastica, e denunciante. Riflesso fedele di una nazione e di un popolo “domato” dalla Storia, e da chi - troppo spesso - ne determina le regole.
Ex figlio
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