Fortissimo
- Autore: Matteo Bianchi
- Categoria: Poesia
- Anno di pubblicazione: 2019
Minerva Edizioni ha inaugurato una collana di poesia dedicata ai giovani autori. È contrassegnata dal nome tenero Cleide, figlia di Saffo, nella cui immagine è racchiusa la freschezza dello sguardo, la bellezza dell’acqua sorgiva dell’adolescenza, come se la parola poetica fosse (ed è) il primo Fiat del mondo. La collana nasce con i buoni auspici di Giancarlo Pontiggia e Cinzia Demi, i curatori, per contrapporsi al cicaleccio mediatico e all’insensatezza dei nostri giorni frantumati e dispersi, addirittura schizofrenici, dissociati da se stessi. Forse mai come nella condizione postmoderna la poesia, tra le altre sue funzioni, possiede proprietà terapeutiche e catartiche.
Matteo Bianchi è una voce di qualità, pietra preziosa inserita nella collana con la silloge Fortissimo (p. 94, 2019). Un titolo, dice l’autore in una sapida introduzione formulata in cinque domande e risposte, scelto per affiancarsi come contraltare a Pianissimo di Camillo Sbarbaro. Entrambi i superlativi rimandano alla confessione della propria interiorità, ma con modalità differenti, una più pudica e adulta, l’altra di Bianchi più ingenua e "spudorata", innocente come può essere la voce di un giovane autentico e incorrotto, ma nel contempo delicata. Ma non è tutta la poesia per sua natura incorrotta, eternamente giovane, delicata e fragile come un cristallo?
Matteo Bianchi ha 31 anni, alle spalle studi a Ca’ Foscari, è libraio, giornalista pubblicista, ha raccolto diversi premi (ultimo il premio Maconi-Giovani proprio per questa silloge) e viene tradotto in diverse lingue.
Fortissimo è l’intensità della rivelazione detta a voce alta, in particolare è lo smarrimento della perdita, l’ineluttabilità dell’amore finito. Gli è congeniale il frammento, sa fare propria la concezione che W. Blake esprime nei versi
"Vedere un mondo in un grano di sabbia
e un universo in un fiore di campo,
possedere l’infinito sul palmo della mano
e l’eternità in un’ora".
Non è un’intuizione da poco. Il testo ha un andamento musicale, scritto sia in prosa (la prima sezione del libro è una movimentata prosa poetica) sia in versi, a volte rimati, sempre lirici, spesso straziati:
"La pazzia di un uomo alla stazione / sta dentro ad un solo momento: / la tua partenza. / Il cielo sul treno è un deserto / e non passa volta, bagagli al vento, / i miei occhiali non siano bagnati. […] Ritorna un tuo sorriso, / riflesso opaco dalle lenti".
La dolce quotidianità che diventa privazione, e nel contempo si trasforma in eternità:
"La data del nostro amore / in tavola / sull’etichetta / di un vasetto rosso. Quel giorno eterno / c’era già chi / pensava all’inverno: / pomodori secchi".
E ancora:
"Chissà quanto il ricordo di te / riuscirà a reggere / quando l’avrò braccato. (Un cacciatore innamorato)"
La caccia è un topos di Giorgio Caproni, per il quale tutta la vita è inseguimento di Dio. Per Bianchi l’inseguimento è la conservazione dell’amore, il suo ricordo, compiuto con la stessa determinazione assoluta del cercatore metafisico. Nel leggerlo viene in mente Rostand e il suo Cirano. Con il rispecchiarsi assoluto nella donna amata.
La temperatura è quella del rimpianto, ma non solo, emerge il valore incancellabile della memoria, la consapevolezza di essere formati dalle nostre esperienze forti:
"– penserai a tutte quelle impronte / in me che si sono fatte Forma –"
Esperienze personali che diventano paradigmatiche, agganciate ai miti, Orfeo ed Euridice in primis, e diversi altri, Penelope sola come tutti gli abbandonati, in attesa drammatica di Ulisse.
Oltre alla permanenza, tema della silloge è la saggezza della mitezza. "Il dolore affina" scrive Manzoni, sviluppa la compassione, e infatti Bianchi recita: "Continuo a tracciare la mia rotta senza spada", il dolore compone l’etica della non violenza.
Come si confronta Bianchi con il destino? Che cosa siamo nel nostro trascorrere?
"Passato di sabbia al setaccio / bambino, / qualcosa si salva ostinato / (l’avevi scommesso all’alba), / qualcos’altro ribatte il sole / nei vetri sulla riva relegato, / pur essendo polvere tutto. / Polveri di un gioco insensato / che taglia".
Ma non è tutto. L’insensatezza viene corretta e forse contraddetta, qui:
"Sommerso calpesto / illusioni appaganti, / le ha uccise la sete. / Ma è piovuto, i campi sono salvi".
Illusioni vitali e indistruttibili sebbene uccise, Leopardi docet. E poi la provvidenza che irriga…
L’insensatezza del vivere è contraddetta lì dove il giovane afferma il suo proposito etico di non avvalersi di armi, della spada, metafora dell’aggressività da domare, presente in natura e in noi, ma da aggiogare. Di più: Il dolore insegna a scegliere la propria volontà come dinamica del fato, a “tracciare” il cammino senza sosta. Ciò comporta responsabilità, l’assunzione del proprio destino alla maniera di Nietzsche espressa nel noto aforisma "Così volli che fosse". Matteo Bianchi gli si avvicina forse inconsapevolmente.
Accettare il fardello del dolore è crescita, maturazione. Accettare la finitezza umana significa intuire una forma di eternità, come nei bellissimi versi, dove l’amata ahimè è innamorata di un altro:
"Ho acceso il mio fuoco dal tuo, / dando una speranza in pasto al buio, / nella distanza che ci salva / e ci separa l’uno dalla fiamma dell’altro. / Se il tuo era per lui, / il fianco condiviso, / il pieno che si è fatto vuoto sconosciuto, / il mio è stato per quello che rimane / in vita, il frammento che porta dentro l’intero. / Nel fumo dei nostri incendi, vedrai, / ci toccheremo".
Ancora Blake rivisitato, e perfino l’immenso Giordano Bruno. Ritroviamo tutta la saggezza antica espressa nella formula En kai pan, uno e tutto. Notevole maturità di un ragazzo, sposata al neoplatonismo.
Ciò che è passato sarà per sempre, principio e fine coincidono come nel serpente ouroboros che si morde la coda. La figura del cerchio compare in Bianchi a saldare in unità le vicende che acquistano senso nel loro fluire, come alberi contemplati in lontananza appaiono non più slegati ma diventano corpo unico, è una sua immagine panica, alberi-umanità, un "corrispettivo oggettivo" direbbe T.S. Eliot, noi trasfusi in altro, oggettivati nella natura.
Si saldano le fratture in una pace che satura le ferite. Vivere è aver sentito e preservato e continuare a sentire, in un silenzio meditativo che ancora una volta è pace conquistata:
"Scrivo per coprire il silenzio, non per colmarlo".
Poesia del frammento ricca di spessore, profondità che sa abbracciare il tutto, il suo silente mistero.
Fortissimo
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