Prima del grande romanzo, Furore (1939), ci furono ricerche, articoli, reportage corredati da fotografie. Non possiamo celebrare l’opera di John Steinbeck, il suo sferzante realismo, la sua struggente attualità, senza considerare l’impegno giornalistico del suo autore che parlò direttamente con i suoi “personaggi”, vivendo a stretto contatto con i migranti economici che pativano l’impatto devastante della Grande Depressione.
Nel 1929 il grande “sogno americano” si era capovolto nel suo voltafaccia più osceno, diventano un incubo.
Nei suoi reportage, Steinbeck documentava le condizioni dei contadini dell’Oklahoma - la loro rivolta così simile a quella oggi gridata nelle strade dai nostri agricoltori - costretti ad abbandonare i loro campi coltivati in seguito al vortice di polvere della “Dust Bowl” che avrebbe condotto le loro vite sull’orlo del baratro. Viaggiavano verso la California, inseguendo la sempiterna e beffarda promessa di un futuro migliore. Cambiamento climatico e recessione economica remavano contro questi migranti di ieri, così simili a quelli di oggi.
Lo scrittore americano registrò le loro voci in una serie di articoli che avrebbero costituito la bozza del suo romanzo più celebre, mentre la fotografa Dorothea Lange si occupava di ritrarre i loro volti in una serie di scatti iconici.
Attraverso questo connubio irripetibile tra parole e immagini prende vita una storia senza tempo che ancora oggi ci parla con la forza impetuosa del presente.
I reportage di John Steinbeck dedicati ai migranti
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John Steinbeck diede loro voce attraverso una serie di articoli pubblicati sul San Francisco News nel 1936. Li scrisse tra il 5 e il 12 ottobre di quell’anno, mentre girava la California a bordo di un furgone per raccogliere il maggior numero possibile di testimonianze. Non poté, naturalmente, riportare l’esperienza di ciascuno: erano oltre 150mila migranti “senzatetto”, di fatto dei vagabondi, che erravano in lungo e in largo spostandosi per la terra californiana in cerca di lavoro.
In quegli articoli, scritti d’impeto senza risparmiare nulla, possiamo scorgere la prima bozza, ancora incompiuta, del romanzo che sarebbe diventato il suo capolavoro, Furore, un autentico manifesto della crisi economica e sociale che stava travolgendo gli Stati Uniti. Steinbeck narrava le cose come stavano, senza fronzoli: parlava di famiglie sfinite, reduci da viaggi durissimi, che spesso durante la tratta avevano visto morire alcuni dei propri figli. Famiglie, inoltre, poverissime poiché avevano dilapidato tutti i loro risparmi nel viaggio verso la California e, una volta arrivate alla meta, non avevano più nulla.
Arrivano in California dopo aver speso tutti i soldi per il viaggio, al punto di vendere, durante il tragitto, coperte, utensili e i loro attrezzi da quattro soldi per comprare la benzina. Arrivano frastornati e abbattuti, in genere mezzi morti di fame, e hanno una sola necessità da soddisfare immediatamente, quella di trovare un lavoro con una paga qualunque per dare da mangiare alla famiglia.
Steinbeck non risparmiava gli attacchi al governo, parlava di sussidi di disoccupazione inesistenti o inaccessibili ai migranti che, inoltre, dopo dieci ore di lavoro nei campi non avevano cibo solido da mettere sotto i denti. Lo scrittore di Furore denunciava, denunciava e dentro di lui cominciava a “fermentare la rabbia” che avrebbe dato origine al suo capolavoro. Parlava di partorienti condannate a morte a causa delle terribili condizioni igieniche, di bambini che morivano di fame, di uomini che “sciamavano come formiche” in cerca di cibo. Queste visioni avrebbero poi preso forma nella frase più incisiva e lapidaria del suo romanzo, che avrebbe decretato il titolo stesso del libro:
Nell’anima degli affamati i semi del furore sono diventati acini, e gli acini grappoli ormai pronti per la vendemmia.
La penna dell’autore poneva sotto accusa lo strapotere dei grandi proprietari terrieri che, accecati dal capitalismo, non facevano nulla per migliorare la situazione e ristabilire l’equità sociale.
Due anni dopo i sette polemici articoli di Steinbeck dedicati agli agricoltori dell’Oklahoma sarebbero stati raccolti in un libro, dal titolo Their Blood Is Strong, sulla cui copertina appariva un’immagine ormai diventata un simbolo della miseria e della resilienza: Okie Mother and Child in California di Dorothea Lange.
L’espressione affranta e tuttavia coraggiosa - c’è un lampo acceso nel suo sguardo - di quella madre che, sfinita dalla fatica abbraccia i suoi figli, sarebbe diventata il simbolo delle condizioni in cui vivevano gli sfollati fuggiti alle regioni devastate dalla siccità. Dorothea Lange in seguito dichiarò di non aver chiesto il nome alla donna, di conoscerne solo l’età: trentadue anni, eppure a chiunque ora osservi il suo ritratto la donna appare di un’età indefinibile, quasi eterna, i suoi trentadue anni sfumano in una vecchiezza tenace dettata dalla sofferenza. Il giovane volto della Migrant Mother è solcato di rughe precoci. Quel volto sfiorito di “donna coraggio” è ora considerato un’icona americana: in lei si incarna la sofferenza di un’intera nazione.
I reportage di Steinbeck sono inscindibili dalle fotografie di Dorothea Lange: in quelle immagini potenti e, al contempo, strazianti possiamo rintracciare, uno ad uno, anche tutti i protagonisti di Furore, i membri della famiglia Joad.
Lange rese visibile la storia che Steinbeck avrebbe eternato attraverso la scrittura: si tratta, in fondo, della stessa vecchia storia, antica come il mondo, il barbarico grido dell’umanità in lotta per conquistare un’esistenza felice o, se non altro, dignitosa, per affermare i propri diritti umani in un mondo che costantemente li nega.
Ora i reportage dello scrittore americano sono contenuti nella raccolta The Harvest Gypsies (letteralmente Gli zingari del raccolto, tradotto in italiano come I nomadi), corredati dalle fotografie di Lange che traducono la scrittura in materia visiva e sembrano incidere le parole nella mente e nella carne.
Anni dopo quelle immagini avrebbero preso vita divenendo parte di un grande libro, The Grapes of Wrath, tradotto in italiano come Furore dall’editore Valentino Bompiani, che ha la forza possente di una narrazione che sfuma nell’epica.
Steinbeck vinse il Premio Nobel per la Letteratura nel 1962 per le sue “scritture realistiche e immaginative” e per la sua “percezione sociale acuta”.
Il “Furore” di Steinbeck e le fotografie di Dorothea Lange
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Il “Furore” narrato da Steinbeck ha il volto in bianco e nero degli uomini e delle donne che animano gli scatti di Dorothea Lange.
È il ritratto di un’umanità umiliata, offesa e, tuttavia, non ancora affranta.
Le fotografie di Lange si accompagnavano a sottotitoli eloquenti: “cenciosi, affamati, falliti”, ma le immagini non avevano bisogno di parole, dicevano già tutto, e mettevano prepotentemente sotto gli occhi dell’opinione pubblica dell’epoca le condizioni disumane in cui erano costretti a vivere dei cittadini americani. Alcune fotografie erano accompagnate da domande eloquenti che interrogavano direttamente - e quasi sfidavano - il lettore.
Laddove non arrivavano le parole, ecco che le immagini avevano un effetto immediato. I volti ritratti erano tristi, scontrosi, rabbuiati dalla stanchezza e dalla fame: non erano volti amabili né disposti a essere fotografati, raramente si intravede lo spiraglio di un sorriso in questi reportage. Le fotografie di Dorothea Lange sono impietose nel ritrarre la sofferenza, eppure oggi le consideriamo “arte” per l’immediatezza del sentimento - di rabbia, di rivalsa, di impotenza - che sono in grado di suscitare.
Ma a colmare il vuoto di senso lasciato dalle immagini ci pensò la scrittura di John Steinbeck. Lo scrittore diede a quei volti la facoltà di parlare e dall’immensa schiera di “cenciosi, affamati, falliti” - come li definivano i giornali - trasse dei personaggi e persino un eroe, come Tom Joad. Dorothea Lange ritraeva la realtà; ma John Steinbeck diede a quella stessa tragica, ingiusta, realtà la facoltà di dialogare con il mondo. Capì che non era il silenzio la risposta. A volte un’immagine può valere più di mille parole, ma Steinbeck sapeva che nulla poteva sostituire la parola, perché parafrasando il Vangelo:
In the end is the word, and the word is Man, and the word is with Man.
La parola è con l’Uomo, dalla parte dell’uomo. Questa è la ragione per cui il Furore di John Steinbeck non si è ancora spento e, anzi, continua a parlare, a denunciare, a costringerci a guardare con senso critico il mondo in cui viviamo e a invitarci a non distogliere lo sguardo dagli ultimi. Quel grido di rabbia non si è ancora spento, rivive in ogni uomo affamato, offeso, umiliato.
Ed ecco che le donne, gli uomini, i bambini delle fotografie di Dorothea Lange prendono vita, si animano, muovono i loro piedi nudi sporchi di terra e fango, sbarrano i loro occhi incavati e ancora ci parlano.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Il “Furore” di John Steinbeck nelle fotografie di Dorothea Lange: l’attualità di un reportage
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