Il 27 febbraio 1902 nasceva nella cittadina rurale di Salinas, in California, lo scrittore John Steinbeck. Fu il narratore degli ultimi, dei migranti, dei poveri, degli offesi. Il suo massimo capolavoro è considerato Furore (Grapes or Wrath, Ndr), vincitore del Premio Pulitzer nel 1940, in cui narra l’odissea di una famiglia costretta a lasciare l’Oklahoma per cercare fortuna a Ovest viaggiando attraverso la polverosa (e infinita) Route 66.
Raccontando la storia di Tom Joad e della sua famiglia l’autore dava voce a oltre mezzo milione di contadini costretti a lasciare le loro terre nell’America degli anni Trenta per dirigersi alla volta della California, inseguendo il ritornello imperante del California Dreamin che si rivelerà essere, invece, un atroce incubo.
L’attualità di John Steinbeck
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La denuncia di Steinbeck sulle condizioni dei migranti: vessati e costretti a vivere in condizioni disumane risuona viva e attuale ancora oggi, mentre barconi stracolmi di gente in cerca di una vita migliore si rovesciano lungo le nostre coste causando una strage silenziosa che non sembra mai aver fine. Lo sguardo di John Steinbeck è infatti prima di tutto quello scrupoloso del giornalista e del cronista, attento alle cose che accadono nel momento in cui accadono, cui unisce l’empatia sensibile e il lirismo dello scrittore. Per queste caratteristiche l’autore fu insignito del Premio Nobel per la Letteratura nel 1962.
Il Nobel gli fu consegnato con la seguente motivazione:
Per le sue scritture realistiche e immaginative, unendo l’umore sensibile e la percezione sociale acuta.
La cosiddetta “percezione sociale acuta” non viene mai meno nella scrittura di Steinbeck: ne è prova anche Uomini e topi, scritto nel 1937 appena due anni prima di Furore, in cui l’autore narrava la storia di due lavoratori stagionali, George e Lennie, sfruttati e infine schiacciati dalla prepotenza dei padroni, chiaro riflesso di una società sopraffattrice che fa di loro delle vittime senza scampo.
Le promesse tradite della povera gente sono una costante della narrativa di Steinbeck e i suoi protagonisti, fiaccati dalla fame e perennemente in moto, appaiono ancora oggi vivi e veri, riflesso speculare dell’olocausto che si svolge lungo i nostri litorali.
Prima di scrivere i suoi romanzi più famosi, Steinbeck aveva lavorato come cronista per il San Francisco News riportando in sette reportage le durissime condizioni di vita dei lavoratori stagionali. Aveva toccato con mano la sofferenza di quella gente e, trafitto dalla propria impotenza, aveva deciso di raccontarla.
Il titolo originario di Furore era Grapes of Wrath (letteralmente i “Grappoli dell’ira”, una citazione dell’Apocalisse) e il suo significato viene spiegato in un passo preciso del libro:
E nei loro occhi cresce il furore. Nell’anima degli affamati i semi del furore sono diventati acini, e gli acini grappoli ormai pronti per la vendemmia.
A Stoccolma nel 1962, in occasione della cerimonia di consegna del Premio Nobel, John Steinbeck fece un discorso importante che ancora oggi rivela un’attualità straordinaria. Nelle sue parole lo scrittore riprende il proprio mentore letterario, William Faulkner, e non trascura l’esegesi biblica che, sin da Furore a La Valle dell’Eden, appare come una costante dei suoi testi.
Il discorso di John Steinbeck alla cerimonia del Nobel
In principio del suo discorso John Steinbeck fa uno sfoggio di inattesa umiltà: afferma infatti di dubitare di meritare davvero il Nobel, considerando il merito di molti altri scrittori da lui immensamente stimati, ma infine ammette che il conferimento del premio lo rende grato e orgoglioso.
Entra quindi nel vivo del discorso con un incipit degno di nota che, non a caso, richiama il testo biblico:
La letteratura è antica come la parola. È nata dal bisogno dell’uomo e non è cambiata se non per diventare più necessaria.
Tra tutti gli scrittori da lui apprezzati e amati, Steinbeck sceglie di citare proprio il suo predecessore, William Faulkner. Secondo l’autore, Faulkner era consapevole più di altri della “forza e della debolezza umana” e attraverso la sua narrativa cercò innanzitutto di spiegare “la comprensione e la risoluzione della paura”.
Questa, afferma Steinbeck, è la ragione più alta del compito di uno scrittore:
Non è una novità. L’antico compito dello scrittore non è cambiato. Egli ha il compito di mettere a nudo i nostri numerosi e gravi difetti e fallimenti, di riportare alla luce i nostri sogni oscuri e pericolosi allo scopo di migliorarli.
Ciò che spetta a uno scrittore è dunque trasfondere all’umanità sentimenti nobili, come il coraggio, la compassione e l’amore per fronteggiare la debolezza e la disperazione dilaganti. In breve, la letteratura deve farsi testimonianza della grandezza d’animo e di spirito e lo scrittore deve credere - prima di ogni cosa - nella condizione di perfettibilità dell’uomo e nella capacità dell’umanità di poter vivere in pace.
Nel suo discorso, John Steinbeck riflette il proprio presente: i tempi controversi che l’America, stretta nella morsa della Guerra Fredda, stava vivendo.
L’autore cita in proposito la storia di Alfred Nobel, il fondatore del prestigioso premio, che fu anche l’inventore della dinamite. Il grande chimico svedese temeva infatti di essere ricordato come un “mercante di morte” che si era arricchito creando un’arma terribile, anziché per i suoi meriti come scienziato. Per redimersi Alfred Nobel decise di donare il suo ingente patrimonio per l’istituzione di un premio che avrebbe valorizzato tutto ciò che era capace di salvare o migliorare la vita delle persone. Steinbeck si collega alla storia di Nobel per ricordare che, in quanto uomini, a tutti noi:
è stato offerto il terribile fardello della scelta.
Riflettendo sul proprio tempo e, in particolare, sugli incredibili progressi scientifici che stavano avvenendo, Steinbeck conclude che l’uomo ha ormai usurpato molti dei poteri una volta attribuiti a Dio. Ormai è l’essere umano ad aver affermato “la signoria sulla vita o sulla morte del mondo intero e di tutti gli esseri viventi”: una constatazione folgorante e al contempo spaventosa che rimette nell’uomo, e non in qualche ipotetica divinità, il potere di agire sul proprio destino. Il potere che ritenevano divino è ora nelle nostre mani e a noi, in quanto esseri umani, spetta la responsabilità enorme che un tempo attribuivamo a Dio.
“In the end is the word, and the word is Man”
Steinbeck conclude il proprio discorso con parole potenti, ribadendo ancora una volta che lo scopo più alto e nobile della Letteratura è quello di agire in nome dell’Umanità:
L’uomo stesso è diventato il nostro più grande rischio e la nostra unica speranza.
Infine l’autore decide di parafrasare una famosa frase del Vangelo di Giovanni, trovando sempre nell’esegesi biblica quella peculiare comunione tra reale e spirituale che è la cifra stilistica della sua scrittura:
Così che oggi l’apostolo Giovanni può essere parafrasato:
Alla fine c’è il Verbo, e il Verbo è l’uomo - e il Verbo è con gli uomini.
In the end is the word, and the word is Man, dice John Steinbeck e riprende la frase chiave del Libro dei Libri, la Bibbia: In principio era il Verbo. Ma ora a quella frase lo scrittore aggiunge un seguito necessario: la parola è l’Uomo.
Così facendo Steinbeck, come un moderno profeta, rimette a noi la nostra responsabilità, i nostri debiti: annulla l’elemento divino e all’invocato agire di Dio interpone quello umano.
La parola, il Logòs, è la causa stessa della Creazione, e ora lo scrittore attraverso il potere del racconto ci invita a tutelare il nocciolo più profondo della nostra umanità.
In the end is the word, and the word is Man, and the word is with Man.
La parola è con l’Uomo. Esiste forse un modo migliore per esprimere il miracolo della creazione letteraria? John Steinbeck professa la letteratura come se fosse una religione e i suoi romanzi, ancora oggi, sembrano preghiere laiche che forse non sono sufficienti a spiegare il male nel mondo, ma ci aiutano a sopportarlo.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Perché il discorso di John Steinbeck per il Premio Nobel del 1962 è ancora attuale
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