Giorgio Gaber. Sette interviste e la discografia commentata
- Autore: Luciano Ceri
- Genere: Musica
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2018
Ha un sacco di buone ragioni Antonio Silva, per scrivere che Giorgio Gaber “era avanti” (introduzione al libro di Luciano Ceri “Giorgio Gaber. Sette interviste e la discografia commentata”, Squlibri 2018). Giorgio Gaber era avanti e lo era senza dubbio sin dall’inizio. Cioè sin dai tempi non sospetti delle canzonissime e di Mina, della Torpedo blu, di Porta Romana, di Barbera e champagne, di Jannacci e Celentano, se mi spiego.
Sotto la popolarità mediale del “primo” Giorgio Gaber, covava già, infatti, il partecipe e disilluso umanista a venire. C’erano già l’anti-assolutorio estensore dei tic della post-modernità e della post-politica (si prega di non tradurre nel senso comune attuale), il neo-Diogene dallo sguardo impietoso e lungimirante. Il grande autore, il grande attore e il grande affabulatore.
“Allora è bello/ quando parla Gaber”, divagava cantando Enzo Jannacci. Parole sante, perché se c’era qualcosa a cui Giorgio Gaber dava peso, subito dopo il pensiero significante (“e pensare che c’era il pensiero”) era la parola. Mai come in Gaber, in principio è stato il verbo, poi – semmai – è venuta la musica (che pure non disconosceva). In una delle interviste che compongono una corposa parte di questo “Giorgio Gaber. Sette interviste e la discografia commentata” (Il sogno di Gaber, da Il Mucchio Selvaggio n. 188, settembre 1993) con l’attenzione analitico-provocatoria che solo chi presta attenzione alle sfumature può permettersi, pronuncia queste frasi che per quanto mi riguarda, se si parla di canzone d’autore, sono da condividere e sottoscrivere una per una (pag.26):
(…)posso dire in linea di massima che un estremo coinvolgimento
ritmico, una estrema scansione ritmica – questo riguarda anche le cose che
faccio – quando non riesci a riscattarlo con una grande coincidenza emotiva
con quello che dici, in genere ne affievolisce lo spessore, perché in effetti la
costrizione ritmica spesse volte richiama il ballo, e il ballo è l’antitesi dell’ascolto; il fatto che si dicano cose importanti ballando è una cosa che non mi ha mai convinto molto. Perlomeno certe cose si dicono perché la gente ascolti, non perché balli.
I rosiconi, i miopi e/o quelli in malafede lo accusavano di “qualunquismo”. In realtà Giorgio Gaber è stato tutto tranne che un qualunquista. Tra i cantautori è stato anzi il più politico di tutti. Il meno inquadrabile perché il più sottile. Il più schierato in quanto meno partiticamente schierato. E poi in quanto coerente. Acuto. Libertario. Capace di coraggio, prima ancora che interpretasse da dio l’apocalisse di Io se fossi Dio. Da Al bar Casablanca e Polli di allevamento, per esempio, intellighenzia modaiola e certo movimentismo ne uscivano maluccio e questo alla faccia della tendenza incensatoria del momento.
Altro che qualunquista. Giorgio Gaber è stato mosso da forza e passione viscerali. A partire dall’abbandono dell’alveo protettivo della RAI per seguire le rotte meno scontate e più stimolanti del teatro canzone: la prossemica, la colonna sonora e fiumi di parole. Monologhi e canzoni per una discografia come un vaticinio a lunga scadenza. Sempre attuale. Come evidenzia Luciano Ceri, a pag. 9 di questo volume che prosegue la fruttifera collaborazione editoriale di Squilibri col Club Tenco (che il dio della canzone significativa possa rendere merito a entrambi):
E allora è bello, quando parla Gaber. Così cantava Enzo Jannacci in Se me lo dicevi prima. Ed in effetti ascoltare Gaber era davvero bello. Non solo a teatro, quando si andava a sentire cosa aveva di nuovo da dire, ma proprio di persona, per chi ha avuto il piacere e la fortuna di farlo. A me è successo in due occasioni, durante due interviste. Lui sempre gentilissimo, cordiale, disponibile, anche quando era sofferente. Curioso. Lucido. Ragionamenti pacati e appassionati allo stesso tempo. Con una visione delle cose molto chiara, anche nel dubbio.
Il libro è a vocazione tassonomica, ma senza quasi darlo a vedere: le prime tre interviste riferiscono di Gaber visto da Gaber, una parabola musical-teatrale che dagli anni del rock’n’roll nella Milano di fine anni Cinquanta, sfocia nei primi vagiti, quindi nella piena maturità del teatro-canzone. Le altre interviste chiamano in causa chi lo conosceva bene: Giorgio Casellato (trent’anni al suo fianco come musicista, arrangiatore, amministratore della compagnia teatrale), Maria Monti (compagna di vita e di scena con Gaber dal 1959 al 1962), Gianni Martini (chitarrista del gruppo dal 1991 al 2000) e Gian Piero Aloisio (collaboratore di Gaber nella scrittura di testi per altri artisti, tra i quali l’immenso Claudio Lolli, dal 1981 al 1993). Ne scaturisce un racconto-ritratto a raggio amplissimo, coronato peraltro dalla puntuale discografia commentata dallo stesso autore. Se mi passate la metafora calcistica: con i libri su Giorgio Gaber uno di fila all’altro ci riempi l’area piccola davanti alla porta. Questo di Luciano Cerri fa la sua bella figura, re-inquadrando l’uomo e l’autore attraverso focus non convenzionali. Penso che Giorgio Gaber meritasse un libro così.
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