La Grande Guerra degli ultimi
- Autore: Chiara Polita
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2015
Il nonno di Chiara Polita aveva solo nove anni quando la Guera Granda, come la chiamava, è passata da San Donà di Piave, ha trascinato lontano i sandonatesi e ha lasciato per un anno solo bombe, macerie e nemici. Per la ricercatrice, autrice di una mole imponente di testi, il racconto dei sacrifici dei più deboli era da sempre nei ricordi domestici e nell’impressionante patrimonio d’immagini fotografiche d’epoca in dote alla sua famiglia. Svilupparlo è stata una conseguenza normale ed è nato l’illustratissimo “La grande guerra degli ultimi. ‘Di qua e al di là del Piave’” (pp. 356, euro 20,00), volume pubblicato da Mazzanti Libri (ME Publisher, collana Storia e identità) nel novembre 2015.
Perché nel 1915-18 in guerra sono andati anche i civili e non l’hanno vinta di certo. Erano donne, vecchi e bambini, gente del confine alpino e giuliano, del Carso friulano e triestino e dal novembre 1917 anche delle due sponde della Piave, come chiamano il fiume da quelle parti, al femminile. Un “esercito” di profughi, a sua volta: solo dal Basso Piave, ben 25.269 anime del distretto che comprendeva San Donà e altri nove comuni vennero distribuite in quindici regioni italiane, affidate alla buona volontà delle Prefetture e alla solidarietà delle popolazioni locali, che non li capivano, parlando un altro dialetto o non li volevano capire. Erano tempi difficili, c’era poco anche per loro.
I civili, i profughi, sono gli “ultimi” di questo racconto. Invisibili, non percepibili. Con loro, ultima fu la popolazione rurale, non avvisata, quindi risparmiata dall’esodo forzato, ma abbandonata alla mercé del nemico occupante. Ultimi erano anche gli indifesi: i più piccoli e gli anziani. Ultime, le donne, oggettivamente fragili ma soggettivamente coraggiose. Ultimi furono i parroci, le religiose che sotto l’occupazione restarono l’unico punto di riferimento per la comunità,
“straniera nella sua stessa terra”.
Ultimi furono i caduti. Ultime tante opere d’arte ed anche il paesaggio, trasformato per sempre dalla Grande Guerra, prima dissacrato durante il conflitto poi consacrato, dopo la vittoria.
Quanti ultimi, nei testi di Chiara Polita, nelle pagine punteggiate fittamente da foto in bianconero, davvero tantissime, più di quante si sia abituati a sfogliare in un libro. Provengono dalla grande collezione dell’autrice.
Spartiacque delle vicende del Basso Piave è stata la disfatta italiana a Caporetto, il 24 ottobre 1917. Da lì partì la ritirata disastrosa, che si arrestò solo sulla sponda destra del Fiume Sacro (l’abitato di San Donà era tutto a ridosso della riva sinistra). La notizia dello sfondamento arrivò il 26 ottobre, piena di presagi drammatici per le sorti locali e nazionali. Transitarono prima i civili in fuga dalla pianura friulana invasa dagli austrogermanici, poi cominciarono a passare “muti” i fanti in rotta e tra loro i primi profughi della Venezia Orientale. A quel punto, anche i sandonatesi attraversarono i ponti, che vennero fatti saltare dietro di loro. Il 4 novembre entrarono in città i soldati nemici: solo un anno esatto dopo, proprio in quel giorno l’Italia avrebbe vinto la Grande Guerra, nel 1918.
Chi erano gli sventurati esuli?
“Donne strillanti, con i bambini stretti al petto; vecchi quasi cadenti che salutarono per l’ultima volta le loro case; fanciulli che spingevano innanzi le poche riserve di quel giorno”
ricordava il parroco mons. Costante Chimenton. Ma una parte della popolazione, sparsa per le campagne, non venne avvisata in tempo e rimase ad affrontare i peggiori nemici del civile vinto più degli stessi avversari: la fame e la precarietà quotidiana. Restarono a subire i bombardamenti, anche ad opera di giovani concittadini, come Giannino Ancillotto, pilota dell’aviazione tricolore, che colpì senza esitazione la villa della sua famiglia, sede di un comando austroungarico. E i bassoveneti della batteria Bortolotto martellarono per dieci minuti d’inferno, a fuoco accelerato, un reparto ungherese che avanzava verso l’argine sinistro a San Donà, con tanto di fanfara e banda in testa, come
“un vero concerto di guerra in un campo insanguinato”.
Tanti gli episodi e le considerazioni originali, quelle sul ruolo delle donne, ad esempio e sulla sorte dei luoghi.
Sergio Frigo, nella prefazione, sottolinea come il lavoro di Chiara Polita rafforzi
“la convinzione, sempre più radicata, che la realtà tragica della guerra si percepisce solo affrontandola dal basso, piuttosto che affidandosi alle ricostruzioni e ai bollettini ufficiali”.
Può valere come una valida conclusione.
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