I bottoni del barone
- Autore: Biagio Pace
L’Autore de "I bottoni del barone" avverte:
Don Paolo è realmente esistito e le sue storie sono vere anche se potrebbero apparire esagerate. […] Ho cambiato il suo nome e quello degli altri personaggi di questi racconti per motivi che non mi dilungherò a spiegare.
Vado avanti col dubbio che, in verità, si tratti di uno dei suoi nobili antenati: la descrizione dei personaggi, dalle caratteristiche fisiche a quelle caratteriali, alle piccole manie, ai capricci, all’abbigliamento, è tanto dettagliata da apparire, se non conoscenza diretta, almeno ricordo tramandato o, forse, ribadito racconto di chi ha visto e vissuto. Resta ovvio che potrebbe trattarsi semplicemente di grande abilità descrittiva, comunque sorprendente per un’opera prima. Anche la storia, le storie, quelle che Biagio Pace Gravina in certo modo minimizza definendole “racconti”, scorrono con il nitore di chi le narra come ne fosse stato partecipe.
Comunque sia, il libro è gradevole, si legge rapidamente e volentieri. A tratti, anche con divertita curiosità. È leggero come una trina di Francia, la stessa con cui la storia inizia, la stessa con cui finisce. Assieme ai bottoni, i Bottoni del barone, appunto. Che diventano, così collocati, prima l’emblema e, infine, la conclusione di un’epoca, di un periodo storico, di un mondo che cambia, si rinnova, si modernizza e finisce per rigurgitare tradizioni, abitudini, nobiltà e vacuità.
Non può mancare (è quasi impossibile astenersene), il paragone con due colossi sullo stesso argomento, "I Vicerè" e "Il Gattopardo": il percorso è lo stesso. Ma Biagio lo fa in punta di piedi, con l’abituale e nobile serenità, con pacatezza e con straordinaria, piacevole ironia. A volte con svagatezza, come dice Amoroso nel risvolto di copertina, quasi non voglia indurre a riflessioni troppo concettose. Quasi non voglia darlo a vedere e, probabilmente, non avendo neppure la presunzione di farlo. Non ci sono, qui, la cattiveria d’animo, le perversioni, l’attaccamento al denaro che caratterizzano i personaggi di De Roberto, uniti sotto l’unico credo della sopraffazione dei forti sui deboli, dei ricchi sui poveri, dei potenti sul popolo, che guida inevitabilmente i personaggi come una maledizione. I quali, tutti, analizzati con la spietatezza del borghese, estraneo a quel mondo, in nome di un distorto senso del dominio, calpestano e travolgono tutto ciò che incontrano o intralci il loro cammino e la loro avidità. Ma non ci sono neppure la rabbia e la consapevolezza della fine che ha il gattopardesco principe di Salina, la sua fatalistica rassegnazione. Se non per i reiterati richiami alla volontà di un puparo che muove impercettibilmente, ma in modo ineluttabile, le fila e i destini della gente. È tutto molto distaccato, come una cronaca, malgrado l’obiettiva difficoltà del possibile coinvolgimento, almeno emotivo, di chi, l’Autore, quel mondo ha visto e vissuto dall’interno, come il Principe. Neppure di sfuggita, neppure in un fremito.
Neppure quando sfiora le vocazioni rivoluzionarie di Don Paolo. Il quale, in fondo, al Principe di Salina, un po’ somiglia: Studiò la condizione della gente che lavorava per la sua casa e lo sorprese il sapere che per ogni persona della sua gente che conosceva ve ne fossero cinquanta ignote,ma non per questo meno importanti. Voleva avvicinare questi uomini, capirne i bisogni e migliorare la loro vita. Pensava alle tecniche agrarie ad un modo più razionale di allevare il bestiame. Ma tutto ben presto si chiude: I bei propositi ed i progetti maturati in quella settimana svanirono inesorabilmente, soffocati dagli impegni giornalieri che la sua posizione gli imponeva. In quella settimana aveva conosciuto la sua parte rivoluzionaria che di tanto in tanto sarebbe tornata a scuoterlo. E tutto si conclude gattopardescamente mentre Don Paolo si assolve: Dopo qualche giorno, neanche tanti, si era convinto che le grandi rivoluzioni non erano per gente come lui. Che, anzi, aveva il dovere di preservare ciò che di buono avevano fatto i suoi antenati, i quali in maniera tradizionale, senza colpi di testa, avevano accresciuto il patrimonio e dato lavoro a tanta gente. Si assolve, dunque, ma serenamente. E senza rimpianti. Anche quando il racconto si fa storia, con il fallito Risorgimento siciliano e la delusione per la falsa epopea garibaldina, l’analisi rimane distaccata, serena. C’è la descrizione di un mondo, la cui vacuità viene, in fondo, sottolineata nella narrazione dal susseguirsi del nulla, delle feste, dei piccoli intrighi, dell’ossequio assoluto alla forma, all’apparire; la cui provincialità si intuisce nell’approccio sbagliato alla modernità, nel quasi velleitario acquisto di un brick alla moda, ma inutilizzabile nelle sgangherate strade di Sicilia, nelle camicie fatte arrivare dall’Inghilterra, nel rinnovo degli arredi; la cui “normalità” si ritrova negli amori furtivi, nella educazione sentimentale di Don Paolo da parte di Miss Ogarty, nella “naturale” disponibilità a concedersi di mogli che considerano questa accondiscendenza non un torto al marito, ma quasi dovuta, come un obbligo, un dovere di appartenenza, uno jus ched rimanda ad altri vassallaggi.
Comunque, tutto con leggerezza e con un linguaggio adeguato che cede raramente alla tentazione dialettale, quasi come fosse la citazione colta e un po’ snob di chi è poco avvezzo al dialetto, ma vuole dimostrare di conoscerlo e di adoperarlo quando serve a farsi capire meglio.
Un percorso terreno, dalla vita alla morte di Don Paolo, che finisce per farsi storia, pur non volendolo essere; un destino quasi segnato, una conclusione annunciata, con le settecento salme della Ganzaria che finiranno per dividersi equamente alla discendenza, un patrimonio che si fraziona e continuerà inesorabilmente a frazionarsi, sia che si tratti di terre e casali o semplicemente di bottoni.
I bottoni del barone
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Incuriosisce una penna di oggi per un mondo che è ancora nel guado fra l’ieri/oggi