I giorni dell’amore e della guerra
- Autore: Carla Maria Russo
“I giorni dell’amore e della guerra” (Piemme 2016) di Carla Maria Russo è il secondo volume, dopo “La bastarda degli Sforza” (Piemme 2015), che l’autrice, appassionata di ricerca storica e biblioteche, dedica alla figura indimenticabile di Caterina Sforza (Milano, 1463 - Firenze, 28 maggio 1509).
“Il 30 aprile del 1488, dopo due settimane di anarchia, in cui avevo rischiato di essere fatta a pezzi insieme ai miei figli e al resto della mia famiglia, tornai a essere la Signora di Forlì. Avevo venticinque anni, sei figli piccoli da allevare e proteggere ed ero vedova”.
L’indomita Caterina Sforza, figlia naturale di Galeazzo Maria Sforza, duca di Milano e di Lucrezia Landriani, era andata sposa nel 1477 a Girolamo Riario, al quale il Papa Sisto IV aveva concesso la signoria di Imola (1473) e Forlì (1480). Girolamo aveva cercato di guadagnarsi il favore popolare abolendo alcune tasse e costruendo opere pubbliche ma in seguito a una congiura, capeggiata dalla nobile famiglia forlivese degli Orsi, venne brutalmente ucciso e il palazzo signorile saccheggiato. Caterina era riuscita a sfuggire ai suoi nemici grazie a uno stratagemma per poi rifugiarsi nella rocca di Ravaldino “imprendibile bastione posto a guardia di Forlì”, il cui possesso era cruciale per chiunque si ripromettesse di comandare la città. Purtroppo la madre Lucrezia, sua sorella Bianca e i suoi sei figli “il più piccolo di loro di soli otto mesi” restavano ancora nelle mani dei congiurati. Caterina non si perdeva d’animo e determinata a non arrendersi si concentrava sulle prossime mosse, certa del fatto che “una strategia difensiva non deve mostrare crepe o il nemico vi si intrufolerà”. La giovane donna dallo spirito battagliero, “una Sforza fatta e finita”, la quale passava in rassegna l’artiglieria e discuteva con i suoi consiglieri “dove e come indirizzare le nostre bocche da fuoco”, avvertiva che la morte del marito “essere imbelle e codardo” l’aveva fatta rifiorire e aprire al mondo. Caterina, finalmente libera da un matrimonio senza amore, si sentiva piena di energia avvertendo un’infinita fiducia nelle sue capacità. Non solo guerra nel futuro della giovane Signora venticinquenne, l’amore stava per arrivare sotto le sembianze del timido ventunenne Giacomo Feo, giovane scudiero del fratello Tommaso, capitano della rocca.
“Come era possibile che i nostri occhi restassero imprigionati gli uni negli altri per istanti interminabili?”.
Sotto la rocca i due fratelli Orsi e il governatore papale Savelli si domandavano come riuscire a domare la Tygre, la belva, il mostro che combatteva a Ravaldino.
“La Romagna stuzzica infiniti appetiti”.
Forlì per merito della sua posizione strategica attirava numerosi pretendenti: non solo il Papa ma anche Lorenzo de’ Medici e lo stesso zio di Caterina, Ludovico il Moro, all’epoca reggente del ducato di Milano in nome del nipote Gian Galeazzo, il quale era interessato a garantire la sua influenza sulla città per contrastare la Repubblica di Venezia.
Nelle intese pagine ricche di storia si staglia l’affascinante figura di Caterina, “ottima amministratrice e valente capo di stato” in una società che
“non perdona a una donna di essere sola, senza un uomo al suo fianco, neppure se ricopre un ruolo di potere”.
La donna, cresciuta nella raffinata corte sforzesca di Milano del XV secolo frequentata da letterati e artisti, dove si respirava arte e cultura, aveva appreso dalla nonna paterna, Bianca Maria Visconti, la predisposizione per il governo e l’uso delle armi.
“Fermezza e buon governo. Era quella la formula da adottare”.
L’autrice dipinge con uno stile avvincente la forte personalità di Caterina, dalla quale è difficile non restare affascinati e avvinti.
“Quelle due settimane nella rocca di Rivaldino segnarono una autentica palingenesi nella mia esistenza, un rovesciamento di ogni mia convinzione, una trasformazione di me stessa come donna che mai avrei immaginato”.
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