I salici
- Autore: Algernon Henry Blackwood
- Genere: Horror e Gotico
- Categoria: Narrativa Straniera
- Anno di pubblicazione: 2019
Canoa, remi, scorte e tenda ci sono. Compagnia, Danubio e insoliti scorci, anche. Un viaggio senza intoppi, tutto sommato, se non fosse che la situazione può sempre prendere una piega inquietante. O almeno, è ciò che succede nel racconto I salici (1907) di Algernon Henry Blackwood, traduzione e cura di Francesca Cavallucci, pubblicato da ABEditore (2019).
L’incipit è una traversata fra i diversi stati d’animo del Danubio, fra le anse del suo romanzo di formazione, attraverso paesaggi cangianti: la vita di un corpo liquido, capace di sonni tranquilli e scatti d’ira. Sorpresi sul suo ventre dalla corrente impetuosa, con Bratislava ormai alle spalle da un po’, il narratore e il suo compagno di viaggio, detto “lo svedese”, sono costretti a fermarsi su una delle isole sparse qua e là, dove si accampano per la notte. Al ristoro dalle fatiche del giorno segue un rapido crescendo di sensazioni sinistre, movimenti reali e interiori, rumori che finiscono per creare una tensione quasi più concreta del luogo stesso. Ma che cosa succede?
È qui il vero nocciolo della storia, perché i due malcapitati non si imbattono in esseri sovrannaturali, o meglio, non ne sono certi. Piuttosto, Blackwood ci mette di fronte all’iniziale istinto del narratore di scappare a gambe levate, per poi fingere di raffreddare gli animi grazie allo svedese, che consiglia di andare via al momento giusto per non dare nell’occhio. In effetti le forze che infestano l’isola mandano segnali minacciosi restandosene occultate dietro i salici ondeggianti, nel vento, o chissà dove, con fare voyeuristico, come se Blackwood avesse in mente – mi sia concesso – la stessa immagine evocata più di ottant’anni dopo dagli Iron Maiden nel ritornello di Fear of the Dark (in un certo senso la copertina dell’album e quella del libro si somigliano).
Qualunque sia la fonte della paura, la reazione dei due viaggiatori dice molto sull’idea di fondo e sulla forma della storia. Il narratore è sempre più fuori di sé, preda di paura, superstizione, totale irrazionalità; lo svedese, invece, è una sfinge, imperscrutabile, equilibrato, forse troppo. Con un colpo di mano esattamente a metà libro, Blackwood confonde i ruoli fin quasi a ribaltarli, staccando ogni etichetta:
"Era cambiato dalla sera prima. Il suo modo di fare era diverso: un po’ agitato, un po’ timido, con una specie di sospetto nella voce e nei gesti. Non saprei come descriverlo adesso a mente fredda, ma al tempo mi ricordo che ero quasi sicuro di una cosa: era spaventato?" (p. 65)
Il crollo psicologico dello svedese è una rivelazione; nel fitto scambio di confidenze che segue, il narratore pensa di poter spezzare la sua catena di elucubrazioni solitarie, ma è un’illusione perché in fondo il dialogo a viso aperto non fa altro che dargli conferma degli strani fenomeni. Il velo dell’ambiguità non vuole saperne di cadere: i salici hanno braccia vive e flessuose o sono marionette nelle mani del vento? I colpi sulla tenda danno sfogo alla furia consapevole degli elementi o sono semplici gocce di pioggia? L’isola continua a sprofondare a causa della corrente o per volere di entità oscure?
Blackwood non ha particolare interesse per la spiegazione degli eventi – che alla fine comunque arriva – perché in realtà vuole “produrre un senso di meraviglia” (Postfazione, p. 139), mettendo in risalto il lento percorso di scoperta rispetto alla meta. In conclusione, si può dire che contano davvero lo sforzo individuale e il potere della coscienza umana. E non c’è da stupirsi, vista la forte attrazione dell’autore per le società segrete, fra cui la Golden Dawn, le scienze occulte e il risveglio spirituale che lo accomunano ad altre grandi figure del primo novecento.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: I salici
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