Il cielo azzurro
- Autore: Galsan Tschinag
- Categoria: Narrativa Straniera
“Si dice che i sogni cattivi non si deve raccontarli a nessuno, ma che bisogna dirli nel vuoto e poi sputarci dietro tre volte. Anche dei sogni buoni si dice lo stesso.” (Pag. 9)
La Mongolia è un paese remoto, sconosciuto, fantastico.
Parlando della Mongolia non possiamo esimerci dall’affrontare il tema fisico, naturale, paesaggistico, ambientale.
Di fronte a un’estensione di circa 1,5 milioni di chilometri quadrati (in classifica 19° al mondo), la popolazione è di poco meno di tre milioni (130° nel mondo). Se poi pensiamo che un milione e quattrocento mila risiede nella capitale Ulaanbaatar, comprendiamo immediatamente la struttura fisica della Mongolia: grandissimi spazi, impervi, difficili, sottomessi alle intemperie climatiche sia d’inverno, sia d’estate.
Immaginare la loro esistenza non è facile e non basta una fugace visita al paese.
Ci aiuta a comprendere le emozioni e le fatiche di questa stoica popolazione lo scrittore Galsan Tschinag nel romanzo Il cielo azzurro (AER Edizione, Bolzano, 1996). Cresciuto nella steppa, nel profondo del paese da una famiglia di nomadi, lo scrittore ci impressiona con un racconto denso di sensazioni.
I temi affrontati sono tanti, illustrati dal personaggio principale, il bambino Dschurukuwaa, utilizzato come catalizzatore delle tensioni della famiglia. Dschurukuwaa non è un ragazzino cresciuto con il cellulare e il computer, deve affrontare già da piccolo le sevizie di una natura matrigna, eppure è un mondo da lui amato perché consapevole di esserne parte integrante.
Intorno ha i genitori, i fratelli e gli altri parenti. Il nucleo è piccolo, limitato, con distanze impossibili dai centri abitati. Chi risiede nelle città sono visti come lontani, inverosimili rispetto alla loro esistenza.
Oltre la jurta, il romanzo è impregnato dalla natura, le stagioni, i fiumi ghiacciati, i nomadi, gli animali osservati attentamente. Le avventure degli uomini sono circondate da pecore, agnelli, yak, mucche, cavalli, lupi e soprattutto il cane del protagonista Arsylang, che non ha mai morso nessuno.
Questa è l’ambientazione.
Dschurukuwaa è amato dalla madre dolce, tranquillizzante, lavoratrice; dal padre:
“… ciò che diceva il babbo era sempre giusto …” (Pag. 90)
e dalla nonna.
Il racconto inizia proprio dalla nonna, sulla quale si concentra l’attenzione dell’autore, perché il ruolo della nonna è quello di rappresentare la tradizione, un mondo antico costante per anni.
La tensione sulla nonna è dovuta pure per un’altra questione: essa non è la madre della madre o del padre, è una vecchia signora, non sposata, la quale viveva, con molte difficoltà relazionali, con la sorella più piccola. Durante un viaggio rimane ferita vicino alla jurta del bambino. Dopo averla conosciuta, i genitori le chiederanno di rimanere:
“… un sentimento per metà di compassione e per metà di rispetto. Un sentimento che subito si trasformò in amore.” (Pag. 15)
I mongoli erano avanti di secoli per le nostre ancora incerte coppie di fatto. Ecco come giustifica alla sorella la decisione di non ritornare a casa e di rimanere con delle persone fino a poco prima sconosciute:
“Estranei ci sono i kazaki, i cinesi, i russi, eppure anch’essi sono uomini come noi. Se osservi meglio, ti accorgerai che siamo imparentati anche con gli animali che ci circondano. Perché non dunque con altre persone, chiunque esse siano?” (Pag. 28)
La nonna, timorosa, discreta, profonda conoscitrice della vita, ci rivela i tantissimi proverbi inseriti come elemento della cultura popolare:
“Chi va in malora ha sempre sonno da vendere.” (Pag. 56)
“Strani tempi!” (Pag. 76)
“… tutti coloro che lavorano senza paura della fatica possono vivere nella ricchezza.” (Pag. 93)
La narrazione prosegue con frammenti di esistenza.
Il rispetto per gli anziani è mostrato dalla lunga preghiera della madre alla nonna quando la prega di rimanere con loro:
“Non sono stata brava abbastanza per avere l’onore di curare mia madre negli ultimi giorni della sua vita; altri, i migliori fra i miei fratelli, sono stati prescelti a farlo. Ma sappiate, daaj, che voi sarete per me una madre, se vorrete vedere in me una figlia. E per altro sappiate che se ci sarà tè nella teiera a voi toccherà il sorso migliore, se ci sarà carne nella pentola, a voi toccherà il boccone più saporito!” (Pag. 27)
Gli anziani rappresentano il centro, la saggezza, il bene più forte; essi tramandano la civiltà, l’esperienza. Nella loro famiglia non ci sono anziani, perciò i genitori di Dschurukuwaa la pregano di fermarsi con loro. Senza la nonna, non avrebbero nessun giudice di sapienza e di buon senso.
La famiglia si riunisce intorno al fuoco, la comunicazione è parlare di fronte al calore. La cultura è unicamente orale e le storie raccontate la sera sono paragonate ai libri di una libreria.
Poi ci sono le altre famiglie del piccolo nucleo.
La zia Galdarak aveva abbandonato l’accampamento per andarsene ed era ritornata segnata:
“Aveva visto la capitale e aveva mangiato il pane. Aveva fatto il soldato e giocato alla guerra con il fucile di legno.” (Pag. 53)
ovvero la zia Pürwū, la sciamana che praticava i riti.
Nonostante le differenze fra essi c’era solidarietà. Quando Dschurukuwaa si brucia gravemente, tutti gli uomini partono velocemente a cavallo, per tutte le direzioni, per cercare del grasso di ogni tipo che possa aiutarlo a guarire.
In Mongolia il 26,87% della popolazione ha sotto i 14 anni (in Italia è il 13,73%) e la formazione dei figli è basilare:
“Nella nostra lingua mancava perfino la parola «educare». (Pag. 26)
perché i valori sono tramandati, come abbiamo visto, vocalmente e dagli anziani. Siccome i vecchi conoscono il bene e il male alcuni elementi eruditivi, sono eroici.
I bambini non potevano giocare alla guerra:
“Noi non abbiamo mai giocato alla guerra. Le persone grandi non ce lo avrebbero permesso.” (Pag. 54)
Perché, come confermava la nonna:
“Da un gioco cattivo nascono cose cattive.” (Pag. 54)
Inoltre:
“… era proibito giocare al lupo, anzi perfino pronunciarne il nome.” (Pag. 54),
perché i lupi erano gli antagonisti degli uomini. Uomini e lupi dovevano dividere lo stesso terreno e le stesse difficoltà di sopravvivenza, perciò la coesistenza era irrealizzabile. L’atteggiamento della popolazione mongola con i lupi è stato raccontato anche nel film L’ultimo lupo del regista Jean-Jacques Annaud.
Ma esiste pure una società diversa in Mongolia. Uno stato distante, lontano, impossibile da capire, ignoto, incomprensibile. Come spesso avviene fra stato e popolazione c’è conflittualità anziché vicendevole interesse. Nella capitale, nelle città del capoluogo il comunismo aveva prevalso. In una popolazione di allevatori il concetto di comunismo è bizzarro e, infatti, i nomadi non capivano. Parlano di “collettivizzazione dell’economia”, di “costruzioni del socialismo” ma in una società povera c’è poco da collettivizzare.
Non capivano perché i figli, fondamentali nella gestione giornaliera, dovevano lasciare la jurta per andare a scuola, intravista come segno di modernità e di stranezza:
“… pensate che perfino per cagare si sta seduti su due assi.” (Pag. 70)
In tanti sentono il fascino di una vita più semplice, perciò abbandonano, anzi, sfidano la tradizione lasciando la steppa per il capoluogo:
“Vanno a cercarsi la povertà, che se la godano fino in fondo!” (Pag. 76)
per avere uno stipendio pagato non con il baratto ma addirittura con il denaro:
“… quei curiosi foglietti di carta colorata …” (Pag. 72)
Poi arriva il terribile, insopportabile e crudele inverno.
È la conclusione della storia, il momento in cui la lettura raffredda le nostre passioni, perché la quotidianità è esageratamente drammatica. La nostra razionalità perde significato perché tutto c’è raccontato con gli occhi semplici di un bambino, già uomo per aver dovuto affrontare la fatica della natura bellissima ma spesso perfida.
Non basta raccontarla con poesia:
“Ormai la montagna e la steppa erano diventate di un bianconero abbagliante, come travolte dalle onde burrascose di un mare di neve in movimento. Quella gelida luce faceva perfino male agli occhi. Soffiava un vento che sembrava tagliare, segare, penetrate e scorticare tutto ciò che incontrava sulla sua strada.” (Pag. 127)
l’inverno è duro.
Gli abitanti della jurta avevano pochi mezzi per affrontarlo:
“… gli uomini della montagna non usavano portare i guanti alle mani, non li conoscevano proprio. In cambio avevamo maniche molto lunghe …” (Pag. 81).
Dschurukuwaa portava un sasso caldo per riscaldare le mani, raccoglieva letame secco per riscaldarsi. Lavoravano come folli, senza tregua, incuranti della neve, del gelo.
Gli animali morivano, gli uomini erano stremati dal dolore, dalla stanchezza, dalla fame. Intorno non c’era nessuno. Nessuno ad aiutarli, solo chilometri e silenzio.
Però di fronte agli stenti, Galsan Tschinag, non ci propone un finale di rassegnazione. I nomadi mongoli dovranno convivere con un mondo - appartenente alle loro famiglie da secoli - ma non si ripresentano come vittime sacrificali.
Due sono le reazioni, comprensibili conoscendo il rapporto vigoroso dei mongoli con lo sciamanesimo, la relazione diretta con la natura, con i segni della stessa.
La madre è stanca, impazzisce e minaccia il cielo. Il cielo deve stare attento perché il mondo può offrire altri cui rivolgere le suppliche e preghiere:
“Oh, che padre dal cuore crudele sei tu!
…
O tu che ci punisci così duramente! Di che cosa ci siamo resi colpevoli?! Non siamo sempre vissuti nella fedeli a te, nella sottomissione e nell’assoluto rispetto delle tue leggi, ah?! Perché allora ci punisci con tanta ferocia e senza nessuna pietà, iiih? Vuoi costringerci a rinnegarti a seguire altri insegnamenti! …” (Pag. 139)
Ancora peggiore la reazione di Dschurukuwaa. Costretto ad affrontare la perdita di un’amicizia forte, il bambino è solo, triste ma nella sua replica è evidente che non accetterà una successiva sopportazione. La pazienza è finita e il miracolo della famiglia - il padre che cerca accanitamente di aiutarlo - non serve molto.
Dschurukuwaa affronta i genitori con una veemenza sconvolgente, con parole di disperazione tipiche di un bambino, simbolo del desiderio di un popolo di migliorare la propria condizione:
“Due li avete dati via e a me mi fate sgobbare come un servo kazako!” (Pag. 169)
Il romanzo mantiene essenziali i valori di una nazione, i cui antenati avevano conquistato il mondo. Galsan Tschinag mantiene un tono realista e fantastico. Il realismo crudele contro l’amore della famiglia. Il comunismo conquistatore contro l’atavico sciamanesimo. Perché l’amore è costante e nella jurta si compiono i gesti d’amore, di solidarietà. Sono gli stessi valori ripresi dall’autore dopo tanti anni, ritornando nella steppa da cui era partito.
I gesti minimi sono quelli affettivi, l’autore li pone come metafore emotive, alcuni sono divertenti.
La nonna è quasi cieca, il suo rimedio, la sua cura era di bagnare gli occhi con: “… l’acqua santa del mio ragazzino!” (Pag. 48)
Dschurukuwaa aiutava la nonna, rimasta senza denti, a mangiare. Prendeva il cibo, lo metteva in bocca, masticava i pezzi più duri e li offriva soffici alla nonna.
Poi c’era il più forte fra i vari segni di amorevolezza, annusarsi:
“… prima davanti a mia sorella poi a mio fratello, in modo che mi potessero annusare. Lo fecero …” … “E tuttavia li annusavo anch’io …” (Pag. 102)
Il segno di affetto per gli animali era rappresentato dalle giornate passate a schiacciare le zecche.
E per ultimo la pulizia, era un momento di gioia straordinaria, allora Dschurukuwaa:
“… mi lavai le mani e perfino il viso.” (Pag. 120)
Il cielo azzurro
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