Il colosso di marmo. L’ardore di Michelangelo
- Autore: Antonio Forcellino
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Narrativa Italiana
- Anno di pubblicazione: 2019
Il Secolo dei Giganti n. 2, Il colosso di marmo. L’ardore di Michelangelo, pubblicato da HarperCollins Italia nel 2019 (556 pagine) è il romanzo di mezzo della trilogia storica rinascimentale avviata nel 2018 da Antonio Forcellino per la casa editrice milanese con la biografia narrativa di Leonardo Da Vinci (Il cavallo di bronzo), un bel volume in brossura cartonata come gli altri due.
La copertina riproduce questa volta un particolare ingrandito del volto della Madonna del Tondo Doni, l’unico dipinto su tavola di Michelangelo, il gigante del Rinascimento protagonista principale della seconda lezione romanzata di storia dell’arte, proposta dell’architetto e importante restauratore nato a Vietri sul Mare.
Anche qui il racconto è scandito in capitoli che riprendono la cronologia dei papi che si sono avvicendati nel corso della vita del Buonarroti, da Alessandro IV Borgia (1492-1503), a Pio III, Giulio II della Rovere, fino a Leone X (1513-1521).
La vita di Michelangelo è stata molto più lunga del trentennio tra i quattro pontefici, ma è quello il periodo che interessa all’autore e nel quale, oltre all’artista-genio di Caprese (Arezzo), si muovono e vengono umanizzati grandi protagonisti delle arti, della cultura e anche della politica e della religione, che in quegli anni erano una cosa sola, tanto che Giulio II non esitava a indossare l’armatura, armarsi di spada e condurre truppe.
Questo è particolarmente messo in evidenza nel kolossal hollywoodiano Il tormento e l’estasi, del 1965, che interpreta il rapporto tra il papa e Michelangelo come uno scontro tra due personalità forti, ma l’architetto salernitano respinge la superficialità della rappresentazione cinematografica che ha puntato sul conflitto, trascurando sentimenti più complessi, quasi da padre e figlio. In una perentesi, Forcellino mostra comunque l’artista toscano in dubbio se rappresentare Sua Santità con in mano una croce o una spada.
Il committente dei grandiosi affreschi della Cappella Sistina è proprio papa della Rovere, sebbene il Buonarroti si professasse esclusivamente scultore, non pittore, sostenendolo con tutta la determinazione di un carattere ruvido e per niente disposto a smancerie e convenzioni cortigiane. Michelangelo è alieno dai compromessi ai quali si piegava il collega Leonardo da Vinci, disposto a servire il chiacchierato Cesare Borgia pur di trovare una ricca committenza per i suoi capolavori.
Com’è congeniale allo scrittore di Vietri, nella trilogia s’incontrano in varie interazioni protagonisti dell’epoca nelle arti, lettere, affari di Stato e di Chiesa. Artisti anziani come Botticelli e Bramante, o promettenti, come Raffaello. Nelle prime pagine si fa notare Machiavelli nelle vesti di segretario della Repubblica di Firenze. È lui a recare a un giovane Buonarroti l’offerta di porre mano a un blocco di marmo colossale ma imperfetto. Per un quarantennio, fior di artisti avevano provato ad affrontarlo, fermandosi al semplice progetto, senza il coraggio di cominciare a scalfire il colosso di pietra bianca alto 7 metri e largo quasi 2. C’erano voluti tre mesi per trasportarlo dalle cave apuane al deposito della Basilica di Santa Maria del Fiore, in cui giace da decenni.
Fino a quel momento aveva sconfitto tutti, ma a un passo dal 1500 la Repubblica aveva prestato orecchio alle suppliche di papà Buonarroti di fare finalmente tesoro per la grandezza di Firenze delle grandi qualità rivelate da quel suo figliolo, distintosi nello scolpire diciassettenne un mirabile Ercole (poi perduto) e poco più che ventenne la splendida Pietà vaticana.
Michelangelo obietta che il blocco da cui aveva ricavato la deposizione era almeno due terzi più piccolo, ma in cuor suo ambisce a misurarsi, per riscattare l’onore della sua famiglia, tradito da un ventennio di vergogna economica, dopo due secoli di prestigio al servizio di Firenze. Il genio vede all’interno dell’enorme marmo la figura che aspetta d’essere tratta fuori dalla pietra che l’avviluppa. Il compito di liberarla tocca alle sue mani e all’uso sapiente degli arnesi.
Il grande blocco carrarino, che i fiorentini avevano soprannominato il gigante e che aveva respinto tanti per la cattiva sgrezzatura, conteneva il Davide, l’eroe che tutto il mondo ammira da cinque secoli, custodito nella Galleria dell’Accademia a Firenze, dove svetta coi suoi oltre 5 metri d’altezza, mentre una copia guarda la città dall’alto di Piazzale Michelangelo e un’altra si affaccia su Piazza della Signoria davanti a Palazzo Vecchio.
Le grandi opere di Michelangelo ci sono tutte nel romanzo, compreso il duello nei saloni del Palazzo della Signoria col rivale da Vinci. Il gonfaloniere Soderini aveva commissionato due grandi affreschi sulle vittorie militari fiorentine: a Leonardo la battaglia di Anghiari, al più giovane quella di Cascina. Il risultato della sfida non è pervenuto, la tecnica usata dal primo non resse sul muro, il lavoro dell’altro non andò oltre i bozzetti preliminari. Firenze e l’arte mondiale ci hanno certamente rimesso.
Da straordinario esperto in restauri, Forcellino ha elaborato una tecnica per individuare la paternità delle opere michelangiolesche. Suggerisce di usare un semplice foglio di carta per l’accertamento. Buonarroti era preciso come una macchina, tanto nel colpo di scalpello che nella pennellata (sempre 10-11 cm di segno) e non usava raspe per levigare il marmo, solo scalpelli. Così, poggiando il foglio su parti della scultura e ricalcando, restano sulla carta i tratti impressi dell’artista: se risultano precisi, quasi meccanici, la mano è del genio. Tecnica elementare, ma efficace, messa a disposizione degli esperti, per la non facile attribuzione della paternità artistica di un’opera.
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