Il consenso totalitario. Opinione pubblica e opinione popolare sotto fascismo, nazismo e comunismo
- Autore: Non disponibile
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Casa editrice: Laterza
- Anno di pubblicazione: 2012
- A cura di Paul Corner
In questi tempi di fragilissime democrazie, autocrazie e dittature feroci che ci saremmo ingenuamente aspettati di aver lasciato alle spalle non è cattivo affare (ri)leggere testi che affrontano questioni come il rapporto fra il capo e le folle, la propaganda, la servitù volontaria o la psicologia delle masse.
Riprendiamo fra gli altri un interessante volume collettaneo del 2012 a cura di Paul Corner, Il consenso totalitario (Laterza, trad. di T. Bolognese) intorno all’annosa domanda sulla più o meno volontaria adesione delle masse ai dettami dei regimi totalitari.
Notoriamente, per lo più è prevalsa l’idea che alla base di siffatti sistemi politici ci siano, va da sé, il terrore e propaganda. Che ne sono pilastri, a prescindere dalle differenze fra un regime e l’altro. Però resta da capire, e l’esercizio non è mai semplice, quanto vi sia ogni volta di terreno fertile nella cosiddetta opinione popolare di un paese o al contrario quanto sia indotto con la forza e la ripetizione massiccia di dogmi perlopiù truculenti. Si tratta di questioni difficili e vischiose, ché pare abbastanza irragionevole supporre un “naturale” impasto magmatico fra i paradigmi imposti dall’alto e le inclinazioni individuali. Almeno, spesso non è stato facile verificarlo.
Notiamo intanto che lo stesso Paul Corner, autore del saggio sul fascismo, tiene a distinguere opinione pubblica e popolare, ricordando come la prima in un contesto totalitario sia implausibile, essendo impossibili la dialettica e il conflitto.
Proprio a partire dal caso italiano, dal fascismo, ossia da un regime che da più parti e per motivi diversi è stato definito di un “totalitarismo imperfetto”, le forze originarie in causa – le masse stesse – si possono immaginare sì, corree all’ideologia del regime; e recalcitranti insieme.
Vediamo più da vicino. Da una parte c’è un popolo, avrebbe detto Leopardi, filosoficamente indifferente, incapace di aderire responsabilmente a un consesso civile e politico serio. Corner non ne parla, ma c’è qui una contraddizione funzionale alla storia dell’Italia fascista: se l’italiano non crede a niente e per lui niente ha importanza fuori dal proprio particulare, bene, non è questa l’essenza psicologico-culturale della piccola borghesia fascista?
Con tutt’altri obiettivi in mente, lo stesso Mussolini riteneva gli italiani sostanzialmente ingovernabili. E forse per questo, lui e i suoi gerarchi si interessarono più al comportamento esteriore – alla scena – che alla vera fabbricazione del nuovo uomo fascista, benché millantata a da qualcuno sognata né più né meno che in altri regimi totalitari.
D’altro canto, però, se come sostiene Corner, per il fascismo italiano la ricerca di una trasformazione antropologica fu meno ossessiva, l’adesione popolare fu meno solida di quanto si pensi perché il fascismo non mantenne nessuna delle sue promesse. Non migliorarono le condizioni economiche della grande maggioranza delle persone, a fronte di una corruzione dilagante nell’ambito dei piccoli poteri locali.
Non si potrebbe dire la stessa cosa riguardo al nazismo, per esempio. Ian Kershaw, autore peraltro di una nota biografia di Hitler, ricorda che solo dopo gli anni Settanta si cominciò a studiare quel regime dal basso, con il cosiddetto “progetto Baviera”. Diventò così più difficile per la storiografia successiva restringere la responsabilità del male al capo e alle SS.
Si arrivò – molti lettori lo ricorderanno – al terribile atto di accusa di D.J. Goldhagen contro “i volenterosi carnefici di Hitler”, che implicava nella ferocia nazista la stessa popolazione tedesca. Tuttora il pendolo, scrive Kershaw, continua a oscillare fra l’ipotesi della coercizione e quella del consenso.
Rispetto al regime fascista, inteso che il potere totalitario aspira a monitorare il sentimento popolare che lo riguarda, i resoconti dei funzionari nazisti erano in linea di massima più cauti nell’evidenziare elementi di conflittualità o disinteresse.
Per interesse, per calcolo? L’impresa di risolvere una volta per tutte il problema è arduo. Quanto alla questione antisemita, sembrerebbe che perlopiù molti tedeschi dissentissero sui metodi ma non sulla cosa in sé – i mercati ebraici erano più economici e non era conveniente boicottarli.
Il consenso – o almeno, la sua ricaduta pratica, la possibilità di arrivare tecnicamente allo sterminio – scrive nel suo saggio Otto Dov Kulka, lo si deve alla maggioranza silenziosa.
Anche negli studi sullo stalinismo, la prudenza la fa giustamente da padrona. Sempre difficile capire dove scatta il riflesso difensivo o interviene un’autentica adesione ai dettami del regime.
Secondo Jochen Hellbeck per esempio, una vasta congerie rivoluzionaria – ben più ampia della compagine bolscevica che prese il potere – nella Russia di fine Ottocento era motivata al “miglioramento di sé” (basti guardare alla grande letteratura del secolo). Ma erano pur sempre minoranze.
Dopodiché, se “opinione pubblica” nel regime stalinista diventerà un ossimoro, una barzelletta contro Stalin, lui in vita, sarebbe costata cara, laddove alla versione brezneviana del regime sarebbe stato sufficiente che si partecipasse alle parate. Altre analisi interessanti riguardano la DDR, la Polonia comunista.
Un lavoro che non offre soluzioni definitive, ma apre la strada per indagini ulteriori. Che non sarebbe male investissero la stessa nozione di totalitarismo, declinato per esempio in un regime di apparenti libertà quale quello che domina oggi il mondo capitalistico. Il nostro.
Paul Corner, storico inglese dello Yorkshire, studioso dei regimi totalitari, insegna all’università di Siena.
Il consenso totalitario. Opinione pubblica e opinione popolare sotto fascismo, nazismo e comunismo
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