Il 19 gennaio 1809 nasceva a Boston, in Massachusetts, Edgar Allan Poe, maestro visionario dei racconti del brivido e del terrore. Era figlio di un immigrato irlandese, David, con il sogno di diventare attore, e di una donna di origine inglese, Elisabeth Arnold, che morì di malattia quando il piccolo Edgar non aveva ancora compiuto due anni.
Tutta l’esistenza di Edgar Allan Poe fu oscura e misteriosa, come se su di essa si stendesse un sinistro presagio: le circostanze della sua morte, avvenuta improvvisamente il 7 ottobre 1849, non sono state tuttora chiarite.
Si dedicò con passione alla letteratura sin da giovanissimo, ma non ebbe molta fortuna finché fu in vita. L’unica opera che gli valse una certa popolarità, anche se di breve durata, fu una raccolta di poesie intitolata Il corvo e altre poesie (1846).
Nel poema Il corvo, il cui titolo originale è The Raven, possiamo rintracciare il più autentico manifesto di poetica di Edgar Allan Poe. In questa lunga lirica si condensano infatti tutti i temi cari al maestro del racconto gotico: c’è la morte, il dolore, il senso ineffabile dello scorrere del tempo che appare come una minaccia alla vita umana, l’angoscia per la perdita della persona amata e il baratro abissale dell’assenza.
Il corvo fu pubblicato per la prima volta nel 1845 sul numero di febbraio della rivista American Review e catturò subito l’attenzione del pubblico. Non era chiaro chi fosse l’autore dell’enigmatico poema: Edgar Allan Poe si era firmato infatti sotto lo pseudonimo di “Quarles”.
La paternità del poema fu rivelata solo molto tempo dopo, quando Poe recitò la lirica di fronte a un folto uditorio nell’appartamento di Waverley Place, dove la scrittrice Anna Linch teneva settimanalmente un salotto letterario. L’intensità con cui quell’uomo pallido, vestito di scuro e dallo sguardo allucinato recitò ogni parola di The Raven lasciò intuire che dovesse anche esserne l’autore. Il corvo procurò a Poe una certa notorietà: fu l’unico suo scritto a ricevere un apprezzamento e un giudizio positivo da parte del pubblico. Per i suoi contemporanei quindi Edgar Allan Poe era l’autore di The Raven e non dei Racconti del terrore: strana cosa la fama di un autore, può subire mutamenti imprevedibili nel corso delle generazioni.
Anni dopo, il professor Henry Shepherd dell’università di Baltimora avrebbe consegnato a Poe un posto nell’Olimpo dei classici, al fianco di Milton l’autore di Paradiso Perduto, citando proprio il poema Il corvo. Lo definì una “composizione perfetta”, un autentico prodigio dell’intelletto umano degno di nota in ogni tempo, in ogni lingua:
Nessuna composizione poetica nella nostra lingua raccoglie, come questa, una più ricca, una più armoniosa combinazione di metri e di rime. Ogni singola vocale, ogni singola consonante, ricercata con cura, collocata secondo il suo valore, dà al verso una sonorità magnifica, solenne, prolungantesi al di là delle parole.
Scopriamo testo, analisi e significato del poema di Poe che è stato trasformato in arte da Paul Gauguin e ripreso in una fortunata serie di Tim Burton.
Il corvo di Edgar Allan Poe: testo
Una volta, a mezzanotte, mentre stanco e affaticato
meditavo sovra un raro, strano codice obliato,
e la testa grave e assorta — non reggevami piú su,
fui destato all’improvviso da un romore alla mia porta.
«Un viatore, un pellegrino, bussa — dissi — alla mia porta,
solo questo e nulla più!»Oh, ricordo, era il dicembre e il riflesso sonnolento
dei tizzoni in agonia ricamava il pavimento.
Triste avevo invan l’aurora — chiesto e invano una virtù
a’ miei libri, per scordare la perduta mia Lenora,
la raggiante, santa vergine che in ciel chiamano Lenora
e qui nome or non ha più!E il severo, vago, morbido, ondeggiare dei velluti
mi riempiva, penetrava di terrori sconosciuti!
tanto infine che, a far corta — quell’angoscia, m’alzai su
mormorando: «È un pellegrino che ha battuto alla mia porta,
un viatore o un pellegrino che ha battuto alla mia porta,
questo, e nulla, nulla più!».Calmo allor, cacciate alfine quelle immagini confuse,
mossi un passo, e: «Signor — dissi — o signora, mille scuse!
ma vi giuro, tanto assorta — m’era l’anima e quassù
tanto piano, tanto lieve voi bussaste alla mia porta,
ch’io non sono ancor ben certo d’esser desto». Aprii la porta:
un gran buio, e nulla più!Impietrito in quella tenebra, dubitoso, tutta un’ora
stetti, fosco, immerso in sogni che mortal non sognò ancora!
ma la notte non dié un segno — il silenzio pur non fu
rotto, e solo, solo un nome s’udì gemere: «Lenora!»
Io lo dissi, ed a sua volta rimandò l’eco: «Lenora!»
Solo questo e nulla più!E rientrai! ma come pallido, triste in cor fino alla morte
esitavo, un nuovo strepito mi riscosse, e or fu sì forte
che davver, pensai, davvero — qualche arcano avvien quaggiù,
qualche arcan che mi conviene penetrar, qualche mistero!
Lasciam l’anima calmarsi, poi scrutiam questo mistero!
Sarà il vento e nulla più!Qui dischiusi i vetri e torvo, — con gran strepito di penne,
grave, altero, irruppe un corvo — dell’età la più solenne:
ei non fece inchin di sorta — non fe’ cenno alcun, ma giù,
come un lord od una lady si diresse alla mia porta,
ad un busto di Minerva, proprio sopra alla mia porta,
scese, stette e nulla più.Quell’augel d’ebano, allora, così tronfio e pettoruto
tentò fino ad un sorriso il mio spirito abbattuto:
e, «Sebben spiumato e torvo, — dissi, — un vile non sei tu
certo, o vecchio spettral corvo della tenebra di Pluto?
Quale nome a te gli araldi dànno a corte di Re Pluto?»
Disse il corvo allor: «Mai più!».Mi stupii che quell’infausto disgraziato augello avesse
la parola, e benché quelle fosser sillabe sconnesse,
trasalii, ché, in niuna sorta — di paese fin qui fu
dato ad uom di contemplare un augel sovra una porta,
un augello od una bestia aggrappata ad una porta
con un nome tal: «Mai più!».Ma severo e grave il corvo più non disse e stette come
s’egli avesse messo tutta quanta l’anima in quel nome:
sovra il busto, appollaiato — non parlò, non mosse più
finché triste ebbi ripreso: «Altri amici m’han lasciato!
il mattin non sarà giunto ch’egli pur m’avrà lasciato!».
Disse allor: «Mai più! mai più!».Scosso al motto ch’or sì bene s’era apposto al mio pensiere,
«Certo, — dissi, — queste sillabe sono tutto il suo sapere!
e chi a tale ritornello — l’addestrò, forse quaggiù
sarà stato sì infelice ch’ogni canto suo più bello
come un requiem, non aveva ogni canto suo più bello
a finir che in un mai più!»Ma un pensier folle ancor voltomi a un sorriso il labbro torvo:
scivolai su un seggiolone fino in faccia al busto e al corvo,
e qui, steso nel velluto — presi intento a studiar su
cosa mai volesse dire quel ferale augel di Pluto,
quel feral, sinistro, magro, triste, infausto augel di Pluto
col suo lugubre: «Mai più!».Così assorto in fantasie stetti a lungo, e sempre intento
all’augello i di cui sguardi mi riempivan di spavento,
non osai più aprire labro — sprofondato sempre giù
fra i cuscini accarezzati dal chiaror di un candelabro
fra i cuscini rossi ov’ella, al chiaror di un candelabro,
non verrà a posar mai più!Allor parvemi che a un tratto si svolgesse in aria, denso
e arcan, come dal turibolo d’un angelo, un incenso.
«O infelice, dissi, è l’ora! — e infin ecco la virtù
e il nepente che imploravi per scordar la tua Lenora!
Bevi, bevi il filtro e scorda! scorda alfin questa Lenora!»
Mormorò l’augel: «Mai più!».«O profeta — urlai — profeta, spettro o augel, profeta ognora!
o l’Averno t’abbia inviato — o una raffica di bora
t’abbia, naufrago, sbalzato — a cercar asil quaggiù,
in quest’antro di sventure, di’ al meschino che t’implora,
se qui c’è un incenso, un balsamo divino! egli t’implora!»
Mormorò l’augel: «Mai più!».«O profeta — urlai — profeta, spettro o augel, profeta ognora!
per il ciel sovra noi teso, per l’Iddio che noi s’adora
di’ a quest’anima se ancora — nel lontano Eden, lassù,
potrà unirsi a un’ombra cara che chiamavasi Lenora!
a una vergine che gli angeli ora chiamano Lenora!»
Mormorò l’augel: «Mai più!».«Questo detto sia l’estremo, spettro o augello — urlai sperduto.
Ti precipita nel nembo! torna ai baratri di Pluto!
non lasciar piuma di sorta — qui a svelar chi fosti tu!
lascia puro il mio dolore, lascia il busto e la mia porta!
strappa il becco dal mio cuore! t’alza alfin da quella porta!»
Disse il corvo: «Mai, mai più!»E la bestia ognor proterva — tetra ognora, è sempre assorta
sulla pallida Minerva — proprio sopra alla mia porta!
Il suo sguardo sembra il guardo — d’un dimon che sogni, e giù
sui tappeti il suo riflesso tesse un circolo maliardo,
e il mio spirto, stretto all’ombra di quel circolo maliardo
non potrà surger mai più!
Il corvo di Edgar Allan Poe: analisi e significato
Il corvo è un poema, eppure appare come un racconto in versi. Ciò che si snoda, strofa dopo strofa, è infatti una vera e propria storia dotata di inizio, svolgimento, finale.
Abbiamo un protagonista: un uomo senza nome, probabilmente un umanista, che chiuso nel suo studio piange la scomparsa della donna amata, una certa Lenora. Siamo nel mese di dicembre, è una notte buia e tempestosa, e d’un tratto l’uomo sente bussare alla porta; date le circostanze è colto da un brivido di terrore. Chi lo cerca a quell’ora?
Quando, dopo molte perplessità, l’uomo si decide ad aprire ecco che trova d’innanzi a sé un muro di oscurità dalla quale emerge soltanto un corvo vagabondo. Il corvo entra nella stanza e si mette bene appolaiato sulla statua della Pallade Atena, la dea della saggezza. La presenza della statua pare sottolineare la statura intellettuale del protagonista, la sua ostinata ricerca del senso della vita nella cultura e nelle arti.
Incalzato dalle domande dell’uomo, il corvo risponde sempre con la stessa parola “Nevermore!”, ovvero Mai più!.
Il verso del lugubre uccello, Nevermore, è la chiave per la lettura dell’intero poema e il ritornello che scandisce i versi. La passione per i ritornelli valse a Poe l’appellativo di “jingle man”, l’uomo dei ritornelli, affibiatogli da Ralph Waldo Emerson.
Nevermore è una parola quasi magica, prepotentemente simbolica, che riassume in sé l’enigma doloroso della morte. Il protagonista conosce già la risposta, l’infausto destino che lo attende, eppure non può fare a meno di domandare.
Quel grido Nevermore!, che nell’originale inglese simula il verso gracchiante dell’animale, sembra sintetizzare tutto il tragico della vita: il dolore, la malattia, l’angoscia, la morte.
L’uomo raggiunge l’apice della disperazione solo nel finale, quando comprende la suprema verità della morte, ovvero che non potrà abbracciare “mai più” la donna amata, la bella Lenora, che lei è perduta per sempre.
Nella figura di Lenora possiamo rintracciare un riflesso di Virginia, la moglie di Edgar Allan Poe, morta giovanissima di tubercolosi. Il suo fantasma tornava costantemente nella narrativa di Poe che ne celebrava il ricordo in ogni suo scritto.
Tutto il poema è pervaso da un’atmosfera surreale: non riusciamo a dare un’esatta collocazione alla scena, né conosciamo l’effettiva identità dell’uomo. L’uccello nero ha un valore simbolico, appare come l’emissario di un mondo altro, parallelo, forse il Regno dei Morti. Un senso di inquietudine infatti pervade tutto il componimento: la dicotomia universale tra Eros e Thanatos, amore e morte, rappresenta la trama dominante della lirica. Alla fine, come in ogni opera di Poe, è la seconda, Thanatos la morte, a prevalere: la morte domina sull’amore, lo sovrasta eppure non lo annulla.
The Raven è un canto spettrale, certo, ma non orrorifico: alla fine il sentimento che pervade l’intero poemetto non è la paura della morte, ma il rimpianto.
Da Mercoledì a Paul Gaugin: gli adattamenti del Corvo di Poe
La fortuna del poema Il corvo continua fino ai giorni nostri, di recente è stato ripreso persino nella fortunata serie Netflix Mercoledì di Tim Burton, dove Nevermore è proprio il nome della scuola in cui viene iscritta la protagonista sulla quale aleggia, non a caso, la presenza di Edgar Allan Poe.
Ma il poema ha avuto un certo riscontro persino nell’arte figurativa. Il pittore Paul Gauguin lesse il poema di Poe nella traduzione francese di Stéphane Mallarmé e ne rimase rapito. Trasformò il grido nel corvo nel titolo di un suo famoso dipinto, Nevermore (1897), che raffigura un nudo femminile: una donna tahitiana distesa su un letto. Il dipinto di Gauguin è ora conservato presso la Courtauld Gallery di Londra. Guardandolo attentamente possiamo scorgere la presenza di un corvo azzurro posto sul davanzale della finestra, chiaro omaggio ad Edgar Allan Poe.
L’opera d’arte riflette la stessa innominabile inquietudine del poema, la stessa palpabile malinconia; ma forse vuole restituirci anche l’immagine di Lenora viva attraverso la figura di Pahura, la donna tahitiana amata da Gauguin. Probabilmente per questo motivo il quadro Nevermore è stato definito “Il più romantico dipinto della Gran Bretagna”.
Edgar Allan Poe nel finale del suo pometto fece trionfare Thanatos, ma Paul Gauguin adottò la soluzione opposta per creare la sua opera d’arte: scelse Eros come chiave di lettura di The Raven, Il corvo.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Il corvo” di Edgar Allan Poe: la dicotomia tra Eros e Thanatos nell’arte
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