

Il doge di Lepanto. 7 ottobre 1571. La battaglia navale che ha cambiato la Storia
- Autore: Massimo Trifirò
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Narrativa Italiana
- Anno di pubblicazione: 2023
Acqua, Venezia sorge sull’acqua, ma sarà divorata dal fuoco se non attingerà a un’altra fonte e il Leone morirà, se non ricorderà la Croce e l’Aquila.
È la premonizione dell’ottantaseiesimo, ottuagenario doge della Serenissima Repubblica nel 1577. Sa che il suo tempo è alla fine (morirà il 3 marzo successivo) e il suo pensiero non fa che tornare nell’arcipelago greco dove, sette anni prima, ha contribuito alla grande vittoria della Cristianità. È dedicato a Sebastiano Venier uno degli ottimi, brevi ma sempre intensi romanzi storici o saggi romanzati di Massimo Trifirò, cittadino benemerito di Lecco e scrittore prolifico, in questo caso di uno dei non pochi suoi testi della collana “Il nome della Storia” delle Edizioni Nepturanus, Il doge di Lepanto. 7 ottobre 1571. La battaglia navale che ha cambiato la Storia (dicembre 2023, 96 pagine).
Uno degli scontri navali più importanti della storia, poco più di quattro secoli e mezzo fa, in un tratto di mare antistante l’imboccatura del golfo di Patrasso, lungo la costa ionica greca, a circa 40 miglia nautiche da Naupatto (allora Lepanto). Il successo delle navi cristiane, pur senza portare a conquiste territoriali, risparmiò a parte dell’Europa la dominazione musulmana. La flotta dell’Impero Ottomano venne sconfitta dai battelli alleati della Lega Santa, benedetta da Papa Pio V.
Venier, patrizio veneziano dal carattere forte, scorbutico, non era né tenero né diplomatico. Apparteneva a quella categoria di persone che badano al sodo e sono sincere in ogni occasione, anche quando la verità è sconveniente o spietata. Figlio di Mosè ed Elena Dona, secondogenito di due maschi, era nato intorno all’anno 1496, secondo l’incerta memoria di carte perdute. Imponente e sanissimo, non ebbe modo di addestrare il proprio corpo, ben predisposto, alle fatiche del servizio in marina. Risulta che fosse abilissimo balestriere e quindi tra i più efficaci sulla tolda di una nave, in un’epoca di scontri sull’acqua a distanza ravvicinata.
Escluso il mestiere delle armi, la sua giovinezza lo vide apprendere risorse nei duelli di parole. Fu avvocato di chiaro e costante ingegno e in ogni modo individuo moralmente integro. L’assoluta dirittura, l’alto senso della giustizia e l’indubbia energia prevalsero sul non essere mai stato navigante e guerriero, tanto da fruttargli le cariche prima di procuratore, poi di capitano generale da mar, massimo responsabile delle sorti più delicate per la Repubblica marinara. Come tale, ebbe il comando delle armate lagunari nell’epico scontro di Lepanto, contro la dilagante arroganza conquistatrice di Costantinopoli.
Pochi mesi prima della battaglia, si era consumato l’orribile supplizio di Marcantonio Bragadin. Dopo la resa della fortezza di Famagosta, il 1 agosto 1571, al termine del lungo assedio ottomano sull’isola di Cipro, il comandante turco Kara Mustafa violò gli accordi di resa facendo massacrare i cristiani superstiti. Il capo dei difensori veneziani, Bragadin, venne imprigionato a tradimento, più volte torturato e infine atrocemente scuoiato vivo in pubblico (la pelle, impagliata, venne conservata, poi trafugata e portata a Venezia).
All’alba del 7 ottobre 1571, “in un lembo ristretto di mondo” liquido, beccheggiavano per miglia intorno legni armati di cannoni e carichi di truppe. Il ventiquattrenne comandante della spedizione, Giovanni d’Austria - figlio naturale di Carlo V di Spagna – rinnova il segno della croce dalla testa al petto e alle braccia, imitato sulle altre navi ammiraglie da Marcantonio Colonna, Andrea Doria, Agostino Barbarigo e il vecchio Sebastiano Venier. Dallo schieramento ottomano, una tenue brezza porta il rullare dei tamburi e il suono dei flauti delle tribù delle montagne d’Anatolia, l’urlo delle genti del Caucaso, dei circassi, dei mongoli, dei magrebini, dei popoli dei deserti.
Due linee di vele bianche, separate da una breve striscia color smeraldo: da una parte, la flotta dell’Occidente, centonovantacinque galee e galeazze, per millecentoquindici cannoni. Dall’altra, la formazione turca, ben duecentosettantaquattro navi, ma settecentocinquanta bocche da fuoco.
Venier ricorda l’imponente “assortimento di umanità bellicosa, anche se terribilmente spaventata”. C’erano tre galee dei Cavalieri di Malta; dodici dello Stato Pontificio; altrettante del fiorentino Cosimo de’ Medici, equipaggiate dai pisani; ventidue al comando del re di Spagna, condotte però da genovesi; trentasei allestite dal Regno di Sicilia. Poi, naturalmente, Venezia: centodieci navi, di cui centoquattro galee, con marinai da ogni dove, dalla città e dal Veneto, da Creta, dalle isole ionie, da quelle dalmate e, avanti a tutte, le sei galeazze della Serenissima, al comando dell’ammiraglio Francesco Duodo, vere roccaforti galleggianti con quaranta cannoni ciascuna, in grado di sputare palle di ferro e di pietra da tredici chili l’una in coperta, da ventitré sottocoperta. La “forte voce” di Venezia.
Sulle acque di Lepanto spicca decisivo il ruolo delle sei goffe galeazze, in avanscoperta rispetto alla flotta cristiana, armatissime e robuste, sottovalutate dagli ammiragli del Sultano. Inflissero colpi determinanti, grazie alle innovazioni di Antonio Surian, l’Armeno, noto per l’inventiva tecnica e in virtù della perizia di Zaccaria Schiavina, capo dei bombardieri veneziani, che da mesi addestrava gli uomini al tiro da lontano, al fuoco senza intervalli, quanto di meglio per esaltare le potenzialità delle pur lente galeazze. Dai ponti, il battere delle armi da sparo leggere di parte cristiana, venne in gran parte controbattuto dai turchi solo con archi e frecce.
Ora leggete, ma non dimenticate il monito di Venier sull’alleanza tra la croce guerriera di San Giorgio e l’Aquila bicipite dell’impero di Spagna e Austria. Chissà che per qualcuno non sia tuttora attuale.

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