Difficile stabilire quale sia la canzone più bella di Fabrizio De André, si rischierebbe di incappare in pareri discordi; ognuno ha la propria canzone del cuore, una traccia che parla all’anima ed è legata a un particolare momento, oppure a una specifica fase della vita. Molti, ne sono certa, risponderebbero Il pescatore.
Da bambina scoprii Fabrizio De André grazie a La guerra di Piero, consumando la traccia del cd che conteneva quel brano che ascoltavo a ripetizione senza stancarmi mai. Dicevano che non era una canzone adatta a una bambina, eppure a me sembrava allegra, persino avvincente. Avevo scoperto ciò che mi affascinava di quella musica, di quella voce: la capacità di raccontare una storia dall’inizio alla fine, facendo vibrare delle corde nascoste. Ascoltare De André era come leggere un libro.
Tuttavia, al di là delle predilezioni personali, se c’è una canzone che non manca mai ai concerti o ai tributi in memoria di De André - scomparso l’11 gennaio 1999 - questa è senza dubbio Il pescatore, suonata in apertura o in chiusura per far alzare in piedi il pubblico e battere le mani. Si tratta di una canzone che è come un inno e immancabilmente riunisce tutti in un momento di condivisione, in un abbraccio fraterno e solidale. Segna un momento di tregua e di festa: si odono le prime note vibrare nell’aria e si è già contenti.
Il pescatore forse non è la più bella canzone di De André, ma di certo è quella che meglio rappresenta il suo cantautorato. Nel testo ritroviamo tutti gli elementi centrali dell’opera del cantautore genovese: l’attenzione agli umili, agli emarginati, un personaggio che viaggia “in direzione ostinata e contraria”, il sottotesto biblico interpretato in chiave laica, l’uso della metafora e, inevitabilmente, la poesia. È il brano che può essere considerato come un manifesto della poetica di De André.
Il testo de Il pescatore è stato oggetto di numerose analisi e interpretazioni nel corso degli anni, proprio a causa della sua natura sfuggente e al contempo molteplice, per la varietà di sfumature di contenuto in essa riposte che rendono questa ballata degna di una poesia ermetica.
Qual è il segreto del Pescatore? Perché ha “un solco lungo il viso”? Vediamo nel dettaglio l’analisi del brano strofa per strofa.
“Il pescatore” di Fabrizio De André: testo e analisi
All’ombra dell’ultimo sole
S’era assopito un pescatore
E aveva un solco lungo il viso
Come una specie di sorriso
Venne alla spiaggia un assassino
Due occhi grandi da bambino
Due occhi enormi di paura
Eran gli specchi di un’avventura
Vengono introdotti i personaggi centrali della storia che si muovono in uno scenario quasi mistico, dai contorni indistinti “all’ombra dell’ultimo sole”. Sembra il prefigurarsi di un’apocalisse imminente. Non è giorno e non è neppure sera, pare di trovarsi sulla soglia di un momento metafisico, in un attimo fuori dal tempo. Enigmatico è anche il sorriso del pescatore che viene presentato come “un solco lungo il viso”, difficile da decifrare: in virtù di questa caratteristica il personaggio appare misterioso, sfuggente, difficile da comprendere. Il “solco lungo il viso” del pescatore è stato interpretato, da alcuni, come il reticolo di rughe dovute alla vecchiaia dell’uomo oppure i segni lasciati dal suo duro lavoro che negli anni l’ha esposto al sole e alle intemperie. Ma la “specie di sorriso” del pescatore potrebbe anche essere intesa metaforicamente come un riflesso del sorriso divino che ha in sé qualcosa di sereno e al contempo tragico, come se riassumesse tutta la gioia e la disperazione della vita. Ricorda il sorriso del Buddha narrato nel finale di Siddharta di Hermann Hesse: l’espressione pacificata di chi non si aspetta nulla dall’esistenza e non ha più niente da temere poiché ha raggiunto la pace interiore, la pienezza dell’essere.
Il pescatore che sta seduto “all’ombra dell’ultimo sole” è una figura mistica, divina e non umana, situata al di là del tempo e dello spazio e, soprattutto, al di sopra di ogni giudizio. Il “pescatore”, lo intuiamo ben presto, non è chi dice di essere: il suo ruolo è in verità una metafora che rimanda a una raffigurazione del divino che si fa carne.
Il rovesciamento dei ruoli appare compiuto quando fa la sua apparizione il secondo personaggio: l’assassino, che non viene presentato come malvagio o pericoloso. C’è al contrario in lui qualcosa di innocente e puro: ha gli occhi di un bambino e appare spaventato, entriamo subito in empatia con lui.
E chiese al vecchio dammi il pane
Ho poco tempo e troppa fame
E chiese al vecchio dammi il vino
Ho sete e sono un assassino
Il riferimento biblico si rafforza in questa seconda strofa: l’assassino chiede al pescatore “pane” e “vino”, i due simboli dell’Eucarestia e dell’unione dei fedeli con il corpo e il sangue di Cristo. Ecco dunque che la figura del pescatore rivela tutta la propria natura cristologica, esce dall’ombra enigmatica in cui è confinato. Nel Vangelo Gesù diceva ai suoi apostoli “siate pescatori di uomini”, alludendo al vero significato del verbo “pescare” che non significa “uccidere”, bensì “catturare”. L’invito a lanciare le reti è anche metaforico, è una chiamata a mostrare ad altri uomini la “luce della verità” e della Parola rivelata. In questo caso l’allusione è soprattutto al perdono - un’azione che può essere letta in chiave cristiana, ma anche profana.
Gli occhi dischiuse il vecchio al giorno
Non si guardò neppure intorno
Ma versò il vino e spezzò il pane
Per chi diceva ho sete e ho fame
Il pescatore infatti, proprio come Gesù, non dimostra un attimo di esitazione nel perdonare colui che gli ha confessato apertamente il proprio peccato. Non gli importa di avere di fronte un assassino - un uomo che si è macchiato di un delitto - vede soltanto un uomo affamato e assetato che gli sta chiedendo aiuto. Il pescatore è qualcuno che si prodiga per gli altri, disposto ad aiutare gli ultimi e gli emarginati - proprio come nella Bibbia Gesù aiutava i lebbrosi - stando al di sopra di ogni giudizio sociale dato dagli uomini sugli uomini. Il pescatore obbedisce alla legge cristiana: “Ama il prossimo tuo come te stesso”.
E fu il calore di un momento
Poi via di nuovo verso il vento
Davanti agli occhi ancora il sole
Dietro alle spalle un pescatore
Dietro alle spalle un pescatore
Si è compiuto un gesto di carità, una sorta di miracolo. Sembra che il pescatore donando all’assassino il “pane” e il “vino” si sia offerto in sacrificio per lui, come Cristo per l’umanità, redimendolo così dai suoi peccati. L’assoluzione è avvenuta, ora l’assassino può continuare il proprio viaggio lasciandosi alle spalle il pescatore.
E la memoria è già dolore
È già il rimpianto d’un aprile
Giocato all’ombra di un cortile
Il ricordo del gesto tuttavia rimane impresso nella memoria dell’assassino, che non può dimenticare quell’incontro dal quale è rimasto profondamente segnato. Ora si sente un uomo nuovo, ma continua a provare un sottile rimpianto per la sua innocenza perduta e rammenta, con nostalgia, l’incontro con il pescatore che già appartiene al passato. Continua la sua fuga, ma percepisce nella memoria una ferita, un richiamo dolente.
Vennero in sella due gendarmi
Vennero in sella con le armi
Chiesero al vecchio se lì vicino
Fosse passato un assassino
Fanno l’entrata in scena due gendarmi, coloro che rappresentano la legge e la giustizia. Anche qui appare chiaro il rovesciamento dei ruoli: l’assassino viene presentato come un uomo puro, buono, dagli “occhi grandi da bambino”, mentre i poliziotti appaiono pericolosi perché giungono muniti di armi, come se fossero pronti a sparare e uccidere. In questa presentazione è concentrata una delle concezioni esemplari della poetica di De André, la sua propensione anarchica, la sua convinzione che “la cattiva strada” fosse in realtà quella giusta, l’invito a viaggiare sempre “in direzione ostinata e contraria” disobbedendo alle leggi del branco.
Ma all’ombra dell’ultimo sole
S’era assopito il pescatore
E aveva un solco lungo il viso
Come una specie di sorriso
E aveva un solco lungo il viso
Come una specie di sorriso.
Il finale viene lasciato aperto: De André non ci dice quale sia la risposta del pescatore, eppure appare chiaro che l’uomo non confessa ai due gendarmi dove sia andato l’assassino. Tacendo restituisce all’uomo la sua libertà, compie l’atto supremo del perdono. Si limita a fare quel suo sorriso enigmatico, che custodisce in sé gioia e dolore, non dicendo nulla eppure dicendo tutto. Con quel sorriso il pescatore continua a guardare il mondo dalla sua posizione mistica, “all’ombra dell’ultimo sole”, come un narratore onnisciente che già conosce il finale della storia e il destino di tutti gli uomini.
“Il pescatore” di Fabrizio De André: il messaggio della canzone
La canzone Il pescatore è una ballata vivace, che ben si presta all’esibizione live perché permette al pubblico di battere le mani all’unisono e ballare, sentendosi parte di un tutto. Ma non è certo il ritmo il suo segreto, è la sottile enigmaticità del testo e quel mistero che aleggia attorno alla figura del pescatore stesso e quel suo insolito sorriso.
Si tratta di una canzone enigmatica e al contempo rivelatoria come una delle sentenze espresse da Cesare Pavese nei suoi Dialoghi con Leucò (1947). In un dialogo tra Circe e Leucotea, riportato sotto il titolo Le streghe, Pavese fa pronunciare a Circe queste parole in riferimento a Ulisse:
Intelligenza e coraggio ci mise - ne aveva - ma non seppe sorridere mai. Non seppe mai cos’è il sorriso degli dèi - di noi che sappiamo il destino.
“Gli uomini non sanno sorridere”, aveva commentato precedentemente Leucotea. Questo estratto ci è utile per comprendere il passo più enigmatico della canzone di Fabrizio De André:
“E aveva un solco lungo il viso come una specie di sorriso”
Quel misterioso sorriso “che sorriso non è” racchiude la postura tipica degli Dei, degli uomini immortali che hanno sconfitto la morte e dunque non hanno più nulla da temere né da attendere. Quella “specie di sorriso” è un atto di assoluzione nei confronti del dramma della sofferenza umana; lo stato d’animo di chi vive in un eterno presente e non rimpiange il passato né ambisce al futuro.
Il rimpianto infatti nella canzone appartiene all’assassino, dunque all’uomo. Anche Fabrizio De André, come Pavese nei suoi Dialoghi, compie una rivisitazione del mito: in questo caso si sofferma non sui poemi omerici o le tragedie greche, ma sul libro più importante della storia dell’umanità, la Bibbia. Servendosi metaforicamente di Gesù, personaggio che il cantautore definiva “il più grande rivoluzionario di tutti i tempi”, De André adatta la morale cristiana alla morale laica, ribandendone il concetto fondamentale: il perdono, la fratellanza, “l’amore per il prossimo tuo”. Concetti che non sono cristiani, ma universali e, a ben vedere, sono iscritti nei codici di tutte le religioni. Faber ne avrebbe parlato più compiutamente in un disco uscito lo stesso anno de Il pescatore, dal titolo La buona novella (1970), di cui questa canzone appare un prodigioso anticipo.
In quel disco in particolare De André concludeva la canzone Laudate Hominem dicendo:
Non voglio pensarti figlio di Dio
ma figlio dell’uomo, fratello anche mio.
Questa è la chiave di lettura fondamentale della sua canzone più celebre, Il pescatore, che è un invito a rispettare il comandamento dell’amore, che è universale e al di sopra di qualunque giudizio. De André aveva convertito il Laudate Dominum cristiano in Laudate Hominem, sia lode agli uomini; è il suo messaggio per l’umanità capace di andare oltre i pregiudizi e i conflitti, affermando una nuova moralità, scuotendo le coscienze per spingere a vedere il mondo attraverso nuovi occhi. Un mondo, dunque, dove il povero e umile pescatore è la metafora del divino e l’assassino, affamato e stanco, è l’uomo che può essere perdonato. L’immagine della divinità viene tolta dal suo altare dorato nell’alto dei cieli e trasportata nel mondo, nel vortice torbido della crudezza e della brutalità della vita.
“Amore” e “perdono” sono gli elementi cardine entro cui si inscrive la preghiera laica di Fabrizio De André: una melodia dedicata agli ultimi della terra che diventa poesia nel suo farsi.
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È una melodia di significato e pensieri alti. Grazie a Lui. Ed anche a voi.
Bellissimo articolo.
Mi fa piacere vedere che non sono l’unico che pensa che il pescatore possa essere sopravvissuto all’incontro con l’assassino. L’ho pensato per anni, nella mia mente lui versa il vino e spezza il pane perché l’assassino ha sete e fame e questo è solo quello che importa. Ma secondo molti poi l’assassino lo uccide, cosa che sarebbe motivata dal "rimpianto di un Aprile / Giocato all’ombra di un cortile"
Ora questo secondo me non ha senso.
Intanto il pescatore non credo si trovi all’ombra di un cortile.
Poi, l’assassino è già tale quando arriva: i suoi occhi sono "colmi di paura" e "specchio di un’avventura" e quindi il fatto è già avvenuto.
Non solo: è evidente che l’assassino si senta in colpa e che il delitto è di tipo passionale o simili, non un freddo e sadico agguato ma qualcosa di cui comunque la persona si prende tutta la colpa e per cui sa che dovrà fuggire.
Difficilmente una figura del genere già che c’è ammazza pure il vecchio (a cui, peraltro, è lui stesso a confessare chi è).
Da una storia del genere si otterrebbe il seguente messaggio:
- il male è male è chi uccide una volta ucciderà sempre
- ad aiutare le persone ci si rimette e basta
Non mi sembra proprio un pensiero coerente con chi ha sempre difeso gli ultimi della terra e che peraltro appunto usa, nel descrivere il pescatore, riferimenti a Gesù piuttosto evidenti.