Scritta nell’estate del 1836, Il tramonto della luna è l’ultima poesia di Giacomo Leopardi. Il poeta la scrisse a Villa Ferrigni, alle pendici del Vesuvio, dove si era ritirato con la sorella Paolina e l’amico Antonio Ranieri. La poesia fu pubblicata postuma proprio da Ranieri nel 1845, secondo le volontà del poeta.
Se la Ginestra, scritta nel 1834, è considerata la poesia testamento di Leopardi, ne Il tramonto della luna possiamo ritrovare tutti temi cardine della sua poetica ed è dunque un testo significativo dell’ultima sezione de I Canti.
Leopardi e la luna
Ritorna uno dei temi lirici più ripetuti all’interno dell’opera leopardiana: la luna, che rappresenta l’alterità della Natura ma ha, al contempo, la facoltà di farsi specchio riflesso dell’uomo. È quella stessa “graziosa Luna” di cui il poeta dice “io venia pien d’angoscia a rimirarti” (Alla luna 1819) che si fa simbolo della poetica della rimembranza.
Il Leopardi contemplatore dell’astro lunare è ormai un’immagine assoluta: il poeta guarda alla Luna per vedere dentro di sé, scorge nel suo pallido e lattiginoso riflesso il rovescio di sé stesso, del suo tormento interiore, il suo Io più profondo. È quella stessa luna che interroga il pastore - alter ego di Leopardi stesso - ne Il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (1830): Che fai tu luna in ciel? Dimmi che fai silenziosa luna? , l’astro diventa così confidente supremo di una pena esistenziale.
Il tramonto della luna chiude il ciclo dell’invocazioni lunari, donandoci la summa del pensiero leopardiano che in questi versi mescola l’idillio elegiaco al ragionamento filosofico.
Scopriamo testo, parafrasi e analisi dell’ultimo canto di Leopardi.
“Il tramonto della luna” di Giacomo Leopardi: testo e parafrasi
Quale in notte solinga,
Sovra campagne inargentate ed acque,
Là ’ve zefiro aleggia,
E mille vaghi aspetti
E ingannevoli obbietti
Fingon l’ombre lontane
Infra l’onde tranquille
E rami e siepi e collinette e ville;
Giunta al confin del cielo,
Dietro Apennino od Alpe, o del Tirreno
Nell’infinito seno
Scende la luna; e si scolora il mondo;
Spariscon l’ombre, ed una
Oscurità la valle e il monte imbruna;
Orba la notte resta,
E cantando, con mesta melodia,
L’estremo albor della fuggente luce,
Che dianzi gli fu duce,
Saluta il carrettier dalla sua via;
Nella notte solitaria, sopra le campagne e le acque argentate dove aleggia lo Zefiro e le ombre lontane formano mille ingannevoli riflessi tra rami, le siepi, le colline e le ville, la luna dopo essere giunta all’orizzonte del cielo tramonta dietro le Alpi e gli Appennini, sprofonda nell’infinità del mar Tirreno.
La luna tramonta e il mondo perde i suoi colori, le ombre si dissolvono e una coltre d’oscurità assoluta si addensa sul monte. La notte diventa cieca e risuona il canto triste del carrettiere che saluta la fuggente luce che gli aveva fatto da guida.
Tal si dilegua, e tale
Lascia l’età mortale
La giovinezza. In fuga
Van l’ombre e le sembianze
Dei dilettosi inganni; e vengon meno
Le lontane speranze,
Ove s’appoggia la mortal natura.
Abbandonata, oscura
Resta la vita. In lei porgendo il guardo,
Cerca il confuso viatore invano
Del cammin lungo che avanzar si sente
Meta o ragione; e vede
Che a se l’umana sede,
Esso a lei veramente è fatto estrano.
Così come la luna la giovinezza abbandona l’uomo mortale.
Fuggono le ombre, le illusioni, gli inganni sereni e vengono meno le speranze su cui si fonda la nostra natura mortale.
Dopo la fine della giovinezza la vita si fa oscura, piena d’abbandono. Il viaggiatore, confuso, cerca nella vecchiaia un senso, una ragione; e sente di essere ormai diventato estraneo alla sua patria, la Terra.
Troppo felice e lieta
Nostra misera sorte
Parve lassù, se il giovanile stato,
Dove ogni ben di mille pene è frutto,
Durasse tutto della vita il corso.
Troppo mite decreto
Quel che sentenzia ogni animale a morte,
S’anco mezza la via
Lor non si desse in pria
Della terribil morte assai più dura.
D’intelletti immortali
Degno trovato, estremo
Di tutti i mali, ritrovàr gli eterni
La vecchiezza, ove fosse
Incolume il desio, la speme estinta,
Secche le fonti del piacer, le pene
Maggiori sempre, e non più dato il bene.
Sarebbe troppo lieta la nostra vita se la gioventù durasse per sempre. Agli Dei parve che la gioventù, una condizione in cui ogni gioia è frutto di mille dolori, non potesse durare per tutta l’esistenza, per questo stabilirono un mite decreto: che ogni essere mortale fosse destinato a morire. Non pensarono che la vecchiaia sarebbe stata ancor più dura della morte. Per gli intelletti mortali è il peggiore di tutti i mali, poiché il desiderio è forte, incolume, ma la speranza è stata estinta. Esaurite le fonti del piacere, le pene sono sempre maggiori e il bene non è più promesso.
Voi, collinette e piagge,
Caduto lo splendor che all’occidente
Inargentava della notte il velo,
Orfane ancor gran tempo
Non resterete; che dall’altra parte
Tosto vedrete il cielo
Imbiancar novamente, e sorger l’alba:
Alla qual poscia seguitando il sole,
E folgorando intorno
Con sue fiamme possenti,
Di lucidi torrenti
Inonderà con voi gli eterei campi.
Ma la vita mortal, poi che la bella
Giovinezza sparì, non si colora
D’altra luce giammai, nè d’altra aurora.
Vedova è insino al fine; ed alla notte
Che l’altre etadi oscura,
Segno poser gli Dei la sepoltura.
Anche voi, colline e spiagge, avete perduto lo splendore della luce che rendeva argenteo l’incombere della notte. Tuttavia non resterete orfane della luce ancora a lungo, il cielo tornerà a splendere con l’arrivo dell’alba.
Allora seguirà il sole, con i suoi raggi possenti, che inonderà i campi con torrenti di luce.
Ma la vita mortale, trascorsa la giovinezza, non si colora più di luce; né vede un’altra aurora, rimane vedova sino alla fine dei giorni.
E gli Dei stabilirono di porre fine alla vecchiaia, che oscura le altre età, con la morte.
“Il tramonto della luna” di Giacomo Leopardi: analisi e commento
Link affiliato
L’intero canto si basa su una similitudine che lega il tramonto della luna al tramonto della giovinezza. Leopardi sviluppa la poesia su questa allegoria che ne accompagna il ragionamento filosofico scandito in quattro strofe di versi liberi, endecasillabi e settenari.
La prima parte si apre con una descrizione sul modello elegiaco classico: viene descritto il tramonto della luna che sprofonda il mondo nelle tenebre, colline, spiagge, acque sono progressivamente inghiottite dalle fauci della notte.
Nella seconda strofa viene istituito il paragone fondante per comprendere il significato del canto, tramite la similitudine: tal si dilegua, e tale
/Lascia l’età mortale/La giovinezza, l’autore introduce il suo ragionamento. Ecco che dunque l’intero canto cede il passo alla riflessione filosofico-esistenziale, al ragionamento speculativo, che caratterizza i testi dell’ultimo Leopardi. Alla contemplazione ammirata e alla descrizione incantatoria della prima parte subentra quindi una riflessione ben diversa che presto diventa simile a un’invettiva contro gli Dei che, nella terza strofa, vengono accusati di non fare il bene degli uomini.
La vecchiezza viene descritta come una condanna stabilita dagli Dei, convinti erroneamente di promulgare un “mite decreto”. Secondo Leopardi invece la vecchiaia è il peggiore dei mali perché vede l’estinguersi della speranza nel futuro, anticipando di fatto la morte.
Nell’ultima strofa emerge infine la contrapposizione tra Uomo e Natura, poiché il tempo dell’uomo è lineare e destinato a finire, mentre il tempo naturale è ciclico e destinato a ripetersi. Il sole, dopo il tramonto della luna, tornerà a splendere sul mondo; ma lo stesso destino di rinascita non è riservato agli uomini, che sono invece condannati, terminato il tempo breve della vita mortale, a un’eterna notte (ricorda la nox perpetua una dormienda del carme 5 di Catullo, Ndr). L’analisi del tempo diventa per Leopardi il pretesto per una riflessione sull’esistenza umana: la legge del divenire si scontra con la legge dell’eterno. Ecco che ritorna la figura del viandante, molto simile al pastore errante che dialoga con la luna. In questi versi il viandante ci appare confuso e smarrito, si domanda sgomento quale sia la meta finale del suo vagare, ma non trova risposta.
La luna qui cessa di essere una presenza salvifica, un’interlocutrice benigna e comprensiva. Non è più la “diletta luna” invocata nei canti giovanili, Leopardi ora cessa di interrogarla. È significativo, a questo proposito, che ne Il tramonto della luna si annulli anche l’Io del poeta. La poesia infatti non si fa più veicolo espressivo di una singolarità individuale, di un io lirico, ma diventa espressione di una volontà collettiva e universale. Ne Il tramonto della luna Leopardi intende raffigurare la condizione esistenziale dell’intera specie umana, condannata alla morte e alla caducità.
Anche questa, a ben vedere, al pari della Ginestra, è una poesia testamentaria. Nel finale torna il motivo idillico ed elegiaco ma con una nota stridente, tragica, incapace di offrire consolazione. La descrizione romantica, quasi pittorica, del tramonto della luna che colora d’argento le acque e le colline non offre alcuna consolazione alla vita dell’uomo, in cui invece sono le ombre a prendere il sopravvento. Tutta l’ultima parte del canto vede infatti il dominio di parole legate alla sfera semantica dell’oscurità: ombre, notte, imbruna.
Giacomo Leopardi ci lascia con una significativa chiusura di sipario, descrivendo il progressivo “trascolorare del mondo”, l’avanzare dell’oscurità, che si fa anticipo spettrale della sua stessa morte. Non a caso il canto si conclude con la parola “sepoltura”.
Tutto sembra finire nell’oscurità e nel silenzio preannunciati dal tramonto della luna che, solinga ed eterna peregrina, osserva impotente il destino crudele degli uomini. L’ultima parola è però affidata agli Dei, considerati i veri artefici dei mali mortali, sono loro e non la luna i veri interlocutori cui Leopardi si rivolge in un canto che si discosta dall’ode romantica assumendo ben presto la forma di un’invettiva appassionata. Tutto ciò naturalmente stride con la presunta conversione di Leopardi, avvenuta sul letto di morte, secondo quanto racconta l’amico Ranieri.
Il testo de Il tramonto della luna fu svalutato da alcuni grandi studiosi leopardiani come Walter Binni, che vi vide un “corollario più fiacco rispetto alla Ginestra”, ma alla luce di recenti rivalutazioni si sta rivelando un canto carico di potenzialità interpretative che ci offrono una visione inedita dell’ultimo Leopardi. Sembra che gli ultimi sei versi del manoscritto autografo siano stati scritti dalla mano di Antonio Ranieri, il che ci ci rimanda al giallo irrisolto della morte del poeta.
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Il tramonto della luna”: l’ultimo canto di Giacomo Leopardi
Naviga per parole chiave
Approfondimenti su libri... e non solo Poesia Storia della letteratura Giacomo Leopardi
Lascia il tuo commento