In linea. Quota 731 di Monastero
- Autore: Marco Biasucci
- Genere: Storie vere
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Mursia
- Anno di pubblicazione: 2024
La foto in copertina riprende un colonnello di fanteria non ancora cinquantunenne, con il cappotto grigio verde sdrucito, infangato nella parte inferiore, sopra gli scarponi militari. Era la mattina del 14 marzo 1941, poco prima che una granata di mortaio lo uccidesse, in un posto avanzato d’osservazione sul fronte greco-albanese. L’immagine racconta tanto del libro che più di ottant’anni dopo il nipote Marco Biasucci gli ha riservato: In linea. Quota 731 di Monastero, edito la Mursia nella collana “Testimonianze tra cronaca e storia seconda guerra mondiale” (Milano, febbraio 2024, 202 pagine), con un inserto centrale di otto facciate di scatti e riproduzioni in bianco e nero.
Un ufficiale di grado elevato, comandante di un Reggimento, ucciso in mezzo ai suoi soldati più esposti? Un esempio di nobiltà d’armi di un altro tempo, una prova di grande coraggio, meritevole del riconoscimento postumo, in aggiunta alla meritata medaglia d’oro al valor militare alla memoria, concessa nell’agosto 1941.
Tra le camicie nere di Mussolini, i gerarchi del regime ottenevano generose decorazioni per molto meno.
Cinque anni prima, nella battaglia di Giangabò in Etiopia, allora tenente colonnello, si era visto declassare a medaglia di bronzo l’argento chiesto dal suo superiore, il generale Nasi. Anche allora si era coraggiosamente esposto all’offensiva nemica per coprire il guado e consentire il passaggio e il successo al resto dei reparti. In quella fascistissima campagna d’Africa orientale, medaglie più pregiate andarono a inflazionare i petti di ufficiali littori, camicie nere e aviatori che volavano senza l’ostacolo della reazione nemica (inesistente quella etiopica).
Interpretava in modo soggettivo il ruolo di comando: noblesse oblige, chi riveste un grado deve stare avanti, con i propri uomini. Altre “spalline” fitte si sentivano invece obbligate a ripararsi, per svolgere la propria azione di vertice, restando ben alle spalle della prima linea (pur non violando norme di condotta che suggerivano cautela agli ufficiali, figurarsi ai superiori). È d’obbligo rivolgere un pensiero al colonnello-soldato, che riposa nel sacrario ai caduti Oltremare di Bari e un saluto al nipote Marco, giornalista pubblicista romano che ha dedicato al padre Vincenzo un libro sul nonno mai conosciuto e sulla loro famiglia.
Colonnello Biasucci: era scritto a stampatello e con la vernice nera, sulla cassetta di legno, il bagaglio personale restituito alla moglie dal fronte greco-albanese. Tra le poche cose contenute, le lettere scambiate ogni giorno dai nonni per quasi cinque mesi, raccolte in mucchietti ordinati legati con un nastro tricolore sottile. Marco Biasucci dice che questa corrispondenza lo aveva sempre incuriosito, ma nessuno aveva mai trovato il coraggio di leggerla, trattandosi di un ricordo doloroso; la volta che si è determinato a farlo, soprattutto per preservare un ricordo, è rimasto sorpreso e commosso.
Era incredibile. Mio nonno si trovava in guerra, sotto le bombe, rischiando di morire, al freddo, tra le montagne piene di fango, eppure, fino all’ultimo, scrisse alla moglie delle lettere straordinarie per la loro normalità.
Parlavano di tutto, Gigi e Amelia, dei problemi quotidiani di casa e della soluzione per affrontarli: l’affitto da pagare, il riscaldamento troppo caro, i figli, la scuola, le notizie su parenti e amici, la salute del gatto e del cane, i prezzi saliti alle stelle, la posta che non arrivava mai. La normalità, la quotidianità di quelle lettere e la bellezza dei sentimenti espressi lo hanno spinto a rivedere questa corrispondenza, a interpretarla il più fedelmente possibile e senza retorica, con il solo intento di provare a capire come un uomo colto e raffinato, che non amava la guerra ma anzi sperava di tornare a vivere sereno guardando il mare,
potesse credere, fino a sacrificare la propria vita, in quello che è stato il più terribile dei conflitti.
Luigi Marzio Biasucci era nato a Roma nel 1880. Sottotenente di complemento in Libia nel 1911, passò in servizio permanente effettivo e, dopo avere combattuto nella Grande Guerra sul fronte austriaco e in Africa settentrionale, assunse diversi comandi, anche alla Scuola di guerra, prima della campagna d’Etiopia. In Albania comandava il 140° Reggimento fanteria della Divisione Bari.
La motivazione della medaglia d’oro:
Comandante di reggimento, coraggioso e sagace, con azione appassionata e costante di animatore e di capo, faceva dei suoi battaglioni un superbo strumento di lotta. Ricevuto l’ordine di attaccare una munita posizione avversaria, dava con calma e sicura competenza le necessarie disposizioni per realizzare l’impresa affidatagli. Nello svolgimento dell’azione, alla testa dei suoi battaglioni, fante tra i fanti, valoroso fra i valorosi, faceva impeto sul nemico e ferito mortalmente, cadeva inneggiando alla vittoria. Quota 731 zona Monastero (Fronte greco), 13-14 marzo 1941.
Solo sul fronte greco-albanese: 13.755 caduti, 25.067 dispersi, 50.874 feriti, 12.368 congelati. A oltre ottant’anni da quei tragici eventi non c’è un perché. Come non condividere le conclusioni di Marco?
Oggi, Google Earth consente di salire comodamente da casa su cima Monastir, quota 731, “la collina spelacchiata teatro di tante sofferenze”. Non si soffre il gelo, la mancanza di calzettoni pesanti di lana, di petrolio per la lampada. Non si vedono crateri, alberi smozzicati, cadaveri nella neve. Non c’è traccia del fango. È rimasto tutto nel passato, come l’amor di patria, il senso del dovere e dell’onore. Restano le parole di Mario Cervi, ufficiale di fanteria e testimone di quei giorni:
Il sacrario di quota 731 non deve tanto ricordare un’offensiva sterile e una campagna pazzesca, quanto una somma immensa di valore e di dolore.
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