

Terra sonnambula
- Autore: Mia Couto
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Sellerio
- Anno di pubblicazione: 2025
Immaginifico, polifonico e dalla lingua originalissima, ritorna in Italia nella nuova traduzione di Vincenzo Barca Terra sonnambula (Sellerio, 2025), l’esordio nella narrativa dello scrittore del Mozambico Mia Couto, uno dei maggiori scrittori di lingua portoghese dei nostri tempi, già vincitore del Premio Camões e del prestigiosissimo Premio Neustadt.
La genesi dell’opera, pubblicata originariamente nel 1992, non è fra le più liete: le sue pagine infatti vengono alla luce alla fine della dolorosissima e, soprattutto, estremamente lunga guerra civile, che insanguinò la terra del Mozambico all’indomani dell’indipendenza. E il conflitto permea ogni singola riga del romanzo, benché l’autore, nella prefazione a questa edizione, sottolinei che:
Questo non è, nonostante tutto, un libro sulla guerra. È una storia che riguarda gente in viaggio, mossa dall’assoluta urgenza di raggiungere un’altra sponda.
Ad alternarsi, passandosi il testimone fra i capitoli pari e quelli dispari, due storie. Il lettore incontra anzitutto Tuahir e Muidinga, due individui sperduti e in cammino su una terra arida dove, si legge proprio nell’incipit, “la guerra aveva ucciso la strada”. Sono un anziano e un bambino e tutti i classici binomi sembrano essere possibili: un padre e un figlio (come nel celebre romanzo di McCarthy), uno zio e un nipote, una guida e chi lo segue per trovare il giusto cammino. Si sa solo che i due fuggono dalla guerra e che il più giovane, Muidinga, pare abbia perso memoria e anima, sperduto all’interno come all’esterno. Alla ricerca di un posto dove passare la notte, i due si imbattono nella carcassa semicarbonizzata di un autobus; all’interno restano ancora i cadaveri delle vittime, insieme a un tanfo di ustione. Spetta a Tuahir convincere il suo compagno di viaggio a scegliere quell’ammasso di ferraglia e fuliggine come riparo, dopo averlo ripulito parzialmente. Fra i resti, i due trovano anche dei quaderni e, nonostante Muidinga sembri privato di tutto, scopre che in realtà possiede ancora la capacità di decifrare quei segni, di leggere, e si mette ad accompagnare il buio e il terrore della notte dando voce a quelle pagine.
Si immette in questo modo il secondo filone della narrazione, quello dei dieci quaderni di Kindzu. Fra i suoi fogli scritti a mano esplode tutto un mondo: il lato da realismo magico, che è in realtà una trasposizione delle credenze del Mozambico, fatto di riti orgiastici e leggende, unito alla passione sensuale che può esplodere dentro un adolescente, tutto frammentato da racconti in prima persona che si aprono come scatole cinesi, e poi ancora l’orrore della guerra, vicende al limite del mistico (come quella di una donna sperduta e isolata su una nave arenata), trasformazioni in animali e viceversa, la macchia di marciume che lascia la corruzione all’interno della società e la paura dell’altro, del diverso, fino ai violenti attacchi di xenofobia (rappresentata nell’intensissima storia di Surendra, “l’indiano con la sua nazione sognata: l’oceano senza nessuna fine”). Kindzu è in perenne cammino; ha lasciato una casa disfatta dall’abuso di alcol e dalla sofferenza, ma più mette un passo davanti a un altro e più lo spettro paterno arriva a squinternare i suoi progetti, facendolo oscillare tra desiderio e legami.
In realtà, io avevo smesso di ascoltarla. Pensavo alle somiglianze tra me e Farida. Intuivo ciò che mi legava a quella donna: eravamo entrambi divisi fra due mondi. [...] Volevamo tutti e due andar via. Lei voleva partire per un nuovo mondo, io volevo sbarcare in un’altra vita. Farida voleva lasciare l’Africa, io volevo trovare un altro continente nell’Africa stessa. Ma c’era una differenza fra noi: io non avevo ancora la forza che lei ancora conservava. Non sarei mai stato capace di ritirarmi, di fare marcia indietro. Io avevo lo stesso male della balena che muore sulla spiaggia, con gli occhi fissi sul mare.
Ed è in quest’ultimo aspetto, nell’essenza del viaggio della quale parla l’autore nella frase prima citata, che sta tutta la potenza di Terra sonnambula. Sotto imposizione o per volere personale, tutti i personaggi camminano, e facendolo subiscono in sé e vedono tutto ciò che li circonda subire l’influsso inarrestabile della trasformazione. D’altronde, a ben pensarci, tutti i mezzi di locomozione che si incontrano sono inutilizzabili: le barche sono arenate e restano radicate a terra anche con l’alta marea, l’autobus è riverso a terra e niente potrebbe rimetterlo in moto. Restano i piedi, resta il cammino fatto a passo d’uomo. Con un linguaggio strabiliante, fatto di infiniti neologismi e crasi fra elementi diversi che danno vita a parole fortemente poetiche, Mia Couto ci ricorda che seppure si decidesse di rimanere fermi, di immobilizzarsi in un unico e solo punto, la terra muta di notte, mentre noi dormiamo, e al risveglio non è più la stessa. Hanno pienamente ragione Doris Lessing e il traduttore Vincenzo Barca nel vedere in questo romanzo scritto una trentina d’anni fa un grande classico della letteratura contemporanea.

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