Una vita perduta, ma eternata dalla letteratura. Moammed Sceab è divenuto un simbolo, la sua lapide anonima, smarrita in un camposanto in terra straniera è la lapide di tutti i migranti. Ce ne parla Giuseppe Ungaretti nella poesia In memoria (1915), posta originariamente in apertura alla raccolta Il porto sepolto (1916), quasi si trattasse di una dedica.
Attraverso la breve parabola esistenziale dell’amico africano, Ungaretti ci consegna una testimonianza universale sul significato dell’emigrazione: un processo di sradicamento che comporta perdita d’identità, smarrimento, una sorta di sospensione. La malinconia dell’esule è perfettamente incarnata dalla figura di Moammed Sceab - questo nome dolce, melodioso, da principe arabo - che soffrì sulla propria pelle la pena di essere “straniero”, “senza patria”, e si tolse la vita a Parigi dopo aver cercato invano, con tutte le proprie forze, di integrarsi, di diventare “francese”.
Che fatica camminare come un vagabondo per le strade del mondo e difendere la propria identità, Ungaretti ci restituisce questa pena in poesia, ricordando che al posto dell’amico morto - ancora una volta - ci poteva essere lui stesso. La conclusione è straziante, ma da un certo punto di vista anche consolatoria perché il poeta riesce attraverso la parola a eternare il ricordo di Moammed Sceab. Tutti noi lettori ora sappiamo che è morto, tutti noi lettori ora sappiamo che è vissuto.
In memoria fu pubblicata per la prima volta nel 1915 sulla rivista futurista Lacerba, fondata da Giovanni Papini, in seguito inserita come ouverture della celebre raccolta ungarettiana. In apertura vi è posta un’indicazione di luogo e di tempo: Locvizza, il 30 settembre 1916, Ungaretti la scrisse sul fronte italo-sloveno della Prima guerra mondiale, sull’altopiano del Carso che ispirò numerose sue opere. In realtà sappiamo che la poesia era stata scritta un anno prima, però con un finale diverso: Saprò/fino al mio turno/di morire, così scriveva Ungaretti nella prima edizione pubblicata su Lacerba, in seguito cambiò il finale rendendolo drammaticamente efficace. Forse a ispirargli quegli ultimi versi di struggente sincerità, così lapidari, tragici, senza ritorno, fu proprio l’atmosfera atroce della guerra che non ammetteva consolazione. Nel mondo apocalittico, creato dall’uomo contro l’uomo, la parabola di vita di Moammed Sceab aveva ragione d’esistere e acquisiva un senso proprio lì, tra quelle case sventrate dalle bombe nemiche, dove improvvisamente Ungaretti scopriva che in realtà era il suo cuore “il paese più straziato”.
Scopriamone testo, analisi e commento.
“In memoria” di Giuseppe Ungaretti: testo
Locvizza, il 30 settembre 1916
Si chiamava
Moammed SceabDiscendente
di emiri di nomadi
suicida
perché non aveva più
Patria
Amò la Francia
e mutò nomeFu Marcel
ma non era Francese
e non sapeva più
vivere
nella tenda dei suoi
dove si ascolta la cantilena
del Corano
gustando un caffèE non sapeva
sciogliere
il canto
del suo abbandonoL’ho accompagnato
insieme alla padrona dell’albergo
dove abitavamo
a Parigi
dal numero 5 della rue des Carmes
appassito vicolo in discesa.Riposa
nel camposanto d’Ivry
sobborgo che pare
sempre
in una giornata
di una
decomposta fieraE forse io solo
so ancora
che visse.
“In memoria” di Giuseppe Ungaretti: analisi e commento
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In memoria si compone di otto strofe in versi liberi che oscillano costantemente tra due tempi: passato e presente. Ungaretti rievoca la vita di un uomo, ma soprattutto di un amico: si chiamava Moammed Sceab, e anche lui era un poeta. Veniva dal Libano ed è divenuto, suo malgrado, il simbolo di uno scontro tra civiltà e culture (“fu Marcel/ ma non era francese”) che ancora oggi si ripercuote sul nostro presente.
Giuseppe Ungaretti esercita il dovere della memoria, restituendo la voce a chi più non l’ha, a chi ormai non può più parlare. Riscatta la figura di Moammed Sceab dall’oblio con una poesia melodiosa quanto il suo nome. Non è un caso che Ungaretti avesse posto questa lirica al principio della sua più celebre raccolta, Il porto sepolto (1916): era una chiara dichiarazione d’intenti. Il titolo stesso In memoria fa riferimento alla formula rituale delle sepolture che significa “in ricordo” e ricordare, dall’etimologia latina cor cordis, significa tenere nel cuore.
Nel finale Ungaretti glorifica il ricordo dell’amico in un epitaffio memorabile:
E forse io solo
so ancora
che visse.
Ma noi che leggiamo sappiamo che non è così, perché ora che il nome di Moammed Sceab è stato scritto ecco che è divenuto testimonianza. Ungaretti l’ha eternato attraverso la scrittura e quel “forse” non ha più ragione d’esistere. Noi che leggiamo sappiamo che visse e quel nome arabo si imprime come una croce nel cuore, insieme a quel verso che sa di condanna:
e non sapeva più vivere.
Possiamo cogliere nella figura di Moammed Sceab un alter ego di Ungaretti; erano entrambi poeti, entrambi sperimentarono la tragica condizione di essere senza patria, a fare la differenza è stato quel discrimine sottile tra la vita e la morte. Ricorda il compagno massacrato di Veglia che nel silenzio inscalfibile della morte rivela al poeta una verità suprema sull’esistenza. Anche qui Ungaretti rimane “attaccato alla vita” e scrive parole piene d’amore; mentre Moammed no. Ma proprio lui che è sopravvissuto riscatta l’amico morto e sembra anche redimere sé stesso, perdonarsi d’averlo abbandonato in quel vicolo in discesa in rue des Carmes. Ungaretti dichiara di aver trovato la cura al proprio sradicamento nella poesia e così di essere sopravvissuto. Scioglie così il dolore della perdita in un canto che trova il proprio cardine in un nome che il tempo ha cercato di disperdere, ma che attraverso i versi rimane forgiato a fuoco nella memoria: “si chiamava Moammed Sceab”, e ora tutti noi sappiamo che visse.
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Chi era Moamed Sceab
Ungaretti aveva conosciuto Sceab ad Alessandria d’Egitto, i due erano stati compagni di scuola al liceo svizzero-francese École Suisse Jacot. Sempre insieme si erano trasferiti a Parigi, in rue des Carmes, nel quinto arrondissement, alla ricerca della propria identità artistica e letteraria.
In terra francese avevano condiviso la comune condizione di esuli: solo che Ungaretti seppe integrarsi trovando nuova identità attraverso il suo “canto” poetico, mentre Moammed no, “non seppe sciogliere il canto del suo abbandono”. L’amico africano morì suicida in Francia; ma questo il poeta non lo dice, ci fa solo sapere che è sepolto in una tomba anonima nel camposanto di d’Ivry, un luogo descritto come simbolo di sfacelo e abbandono.
La tragedia di Moammed Sceab è il dramma dell’emigrazione, della dispersione di identità: per adattarsi e non sentirsi “straniero” ma “cittadino” cambia nome in Marcel, sceglie una nuova lingua, una nuova patria, ma non riesce ad affrancarsi dalla sua condizione di “déraciné”, sradicato. Così smarrisce il proprio senso di appartenenza, sino a non sapere più chi essere e neppure a cosa tornare, perché l’aver abbandonato il Corano e i suoi precetti non lo rendeva più accetto nella terra in cui era nato. Era diventato una persona diversa, ma non sapeva chi era diventato: se Moammed o Marcel, se arabo o francese, sino a scoprire di non essere in fondo né arabo né francese. Questa incapacità d’esistere lo conduce alla morte, ma Ungaretti non si focalizza sulla sua triste fine, invece ci ricorda: “che visse”, proprio con questo verbo significativamente conclude la poesia come un presagio di resurrezione.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “In memoria” di Giuseppe Ungaretti: la poesia per Moammed Sceab
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