In treno
- Autore: Angelo Coscia
- Genere: Raccolte di racconti
- Categoria: Narrativa Italiana
- Anno di pubblicazione: 2023
Angelo Coscia, professionista delle relazioni di aiuto e counselor, è un narratore (o meglio, come egli stesso si definisce, un “narrastorie”) e ha pubblicato in questi anni numerose opere letterarie tra romanzi, poesie, raccolte narrative. In treno (Coltura edizioni, 2023) è un esemplare felice del suo stile narrativo e della sua peculiare dimensione artistica.
Fin dalle prime righe infatti, con il suo dettato lineare e oggettivo, privo di fronzoli e abbellimenti estetici, Coscia ci prende a tradimento, coinvolgendoci in un viaggio contrassegnato da una continua sensazione di straniamento, come se autore e lettore fossero legati indissolubilmente dal compito comune di cercare la linea di un confine da attraversare fuori e soprattutto dentro noi stessi.
Un viaggio che, fino all’ultimo, non sappiamo se si risolverà in un approdo o in una deriva. Ed in questo approccio, maieutico e spiazzante, consiste e si realizza la potente immaginazione da cui nascono queste storie.
In treno è per l’appunto una breve raccolta di racconti intrecciati tra loro dal motivo conduttore del viaggio di alcuni passeggeri da Milano al Sud Italia in uno scompartimento di seconda classe. Un viaggio scomodo come i sedili e lo spazio angusto del convoglio in cui sei persone estranee l’una alle altre sono costrette a convivere per tutto il tempo del percorso.
Un viaggio precario, perché la meta di ciascun passeggero è un ritorno; e i ritorni sono sempre precari: verso un luogo, verso un dove, verso un senso che non è scontato, ma ancora da comprendere e definire.
Ogni ritorno infatti contiene fatalmente un dramma irrisolto. Ben presto il piccolo scompartimento diventa un micromondo in movimento.
Un ex camionista irrequieto e ribelle, e con vocazione da nomade, un giovane carabiniere che crede nella “giustizia assoluta”, un compassato professore di storia tenace assertore della “responsabilità della cultura”, un tossicodipendente originario di Scampia appena uscito di galera e in procinto di entrare in una comunità di recupero; e ancora, un sacerdote che, mescolando talvolta il buonismo con la misericordia, persegue la sua missione di umile seminatore nella vigna del Signore vengono uno dopo l’altro a comporre un caleidoscopio vivente (e sofferente) di umanità dissimile, per culture esperienze e vissuti. Difficile immaginare una comunione tra esemplari così antipodici di una stessa specie, una fraternità possibile nel tempo forzato e innaturale di un viaggio su rotaie.
Eppure è proprio la Natura che prende il sopravvento, tra un luogo comune e una frase fatta, spingendo queste persone (termine latino, di derivazione etrusca, che significa “maschera”) a spogliarsi dei loro paludamenti, a invocare, quasi non rendendosene conto, un confronto, un attrito, un’incessante compenetrazione delle rispettive esperienze di vita, finanche scambiandosi di ruolo, per tornare, provvisoriamente, nella loro nudità primigenia di creature umane e consorti, figure precarie ma veritiere di un destino, che nella sua difformità apparente, le accomuna radicandole a un medesimo drammatico sentimento della realtà.
Anche se forse, alla fine del viaggio, arriverà il momento di di salutarsi e riprendere ciascuno, nuovamente da estraneo, la propria divisa.
Ad accompagnare gli altri passeggeri, lui stesso viaggiatore spaesato e confuso, è l’io narrante: uno scrittore “di successo” che rientra al suo paese del meridione dopo aver presentato la sua ultima fatica letteraria nei salotti sparluccicanti di fasto e ipocrisia dell’intellighenzia milanese.
Biglietto di andata di prima classe per quel treno super veloce che in poche ore copre l’enorme distanza tra Milano e casa. Uno di quei treni che mettono tutti incolonnati, uno davanti all’altro, senza poter guardare in viso nessuno.
Per il viaggio di ritorno, invece, lo scrittore ha scelto uno scompartimento di seconda classe, per ritrovare “una dimensione umana” a compenso delle ore fatue e vaniloquenti appena trascorse nel capoluogo lombardo:
“Tra cene e pranzi con scrittori spocchiosi che cercavano di vendere a turno il loro salotto”.
Prima del viaggio, ha avuto cura di acquistare presso un’edicola della stazione un giornale, per una preventiva strategia di autodifesa dall’invadenza molesta dei compagni di viaggio. Sarà proprio il titolo sulla prima pagina del quotidiano, sgargiante di demagogia, ad attivare negli altri viaggiatori una gamma cangiante di reazioni che darà il via alla conversazione narrata nei capitoli successivi. Ma con un’evoluzione del tutto imprevedibile, per il protagonista e per tutti gli altri.
Osserva infatti l’io narrante
“Avvertivo in quella chiacchierata la strana sensazione di leggere più di un libro o tutti contemporaneamente”.
Diventa ben presto chiaro che l’aver preso quel treno ha rappresentato per lui e i suoi occasionali compagni “un tuffo nei ricordi”.
L’autore, Angelo Coscia, è per giunta uno scrittore di favole. Non è un dettaglio trascurabile. Vuol dire che conosce bene quell’impasto straordinario di parole e sogni attraverso cui, nel dettato della narrazione favolistica, ogni cosa acquista un rilievo diverso da quello apparente, come quando sotto la superficie di un elementare disegno a pastello, riconosciamo con stupore un tratto e un colore diverso, che modifica e deforma la veduta d’insieme.
Per questo è soprattutto nella cornice candida e innocente (in apparenza) delle favole che vediamo emergere con sgomento la cruda essenzialità della vita, nella sua piena espansione di nitore e oscurità, oltre ogni immaginazione.
È nelle favole infatti che il destino si rivela. Ed è proprio questa mistura di reale e fantastico sapientemente contaminati tra loro (che pertiene al genere favolistico) a contrassegnare lo stile narrativo dei racconti, al punto tale da trasformare i personaggi in allegorie viventi e a proiettarli, mediante la lunga, sconnessa, divagante conversazione che li coinvolge durante il tragitto, in una nuova dimensione che è al contempo un riflesso veridico della condizione esistenziale, culturale, storica della nostra società attuale avviata verso una deriva inesorabile; ma anche, al di fuori e al di sopra del tempo e dell’epoca contingente, una rappresentazione figurale, dunque universale, compiuta, della natura umana nel suo inestricabile groviglio di conati, bisogni, volizioni e contraddizioni.
E viene in mente un antecedente illustre; di ripensare a un altro libro di conversazioni, casuali e folgoranti; ad un’altra epoca distante oramai un secolo e purtuttavia a noi sempre prossima per l’emersione di un “mondo offeso” che dai fascismi e dalle guerre civili di ieri sembra aggettarsi con la stessa risonanza di inquietudine e dimissione dell’umano nei tempi odierni: e s’intende che sto parlando di Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini.
Ad autorizzare il confronto è, a nostro avviso, innanzitutto il tema del viaggio-conversazione, declinato nel suo duplice registro reale e simbolico, e sia nel testo del grande scrittore che nei racconti di Coscia appare determinante per osservare con sguardo distaccato e al contempo presago la drammatica complessità degli avvenimenti storici e sociali, e per ricercare la strada di un’identità, esistenziale e civile, che sembra ormai smarrita.
Gli argomenti delle conversazioni che coinvolgono i passeggeri (il tema storico e sempre attuale del brigantaggio, il divario tra ricchezza e povertà, la condizione disumana delle patrie galere, la corruzione dilagante in una società consacrata esclusivamente al lucro e al profitto, e la violenza e l’arroganza che ne conseguono per cui perfino l’amore viene associato, in ossequio al senso comune dominante, alla brutalità e al cinismo e l’educazione degradata a indizio di debolezza) sono in apparenza trattati con l’approssimazione degli stilemi di scuola, come se ciascuno dei personaggi volesse celarsi dietro le proprie parole e argomentazioni e, purtuttavia, come accade spesso durante anche la più futile chiacchierata, anche solo per ammazzare il tempo, diventano gli strumenti di uno scavo nel sottosuolo di un mondo ancora e permanentemente “offeso”, dilaniato dall’ingiustizia, dalla disuguaglianza, dall’insoddisfazione di sé e degli altri che induce per reazione desideri sempre più immani e irreali che sostituiscono i bisogni e le necessità primarie.
E infatti, dice uno dei viaggiatori:
Si smette di sognare quando cominci a credere che ciò che ti serve è solo nel presente e l’unico futuro che vuoi è quello del prossimo colpo: i soldi sono la cosa la cosa più semplice da avere e sono la cosa più semplice da veder andare via.
In questi racconti, inoltre, l’ordito delle conversazioni converge non di rado verso un nodo cruciale, il mestiere di scrivere e raccontare.
Ho sempre pensato che scrivere, per uno scrittore, sia l’espressione del suo animo e non descrizione di ciò che gli succede intorno.
Afferma il narratore; ed è singolare che tutti gli altri passeggeri, dal carabiniere al sacerdote al tossicodipendente, che provengono da altri mondi ed esperienze, intervengano in modo non ozioso con il loro punto di vista sulla questione. Forse perché l’esperienza di scrivere e raccontare è inscindibile da una idea morale di responsabilità, che non pertiene soltanto allo scrittore, ma riguarda e coinvolge tutti, e postula un impegno comune, al di là delle teorizzazioni (“i vittoriniani “astratti furori”) e degli schematismi culturali.
Un “engagement naturale” come ebbe modo di definirlo proprio Elio Vittorini, vale a dire un impegno che per mano dello scrittore si rispecchia nell’opera scritta ma non è fatto solo di inchiostro, bensì consustanziato da un’esperienza collettiva, spontanea e drammaticamente radicata, in una dimensione storica ed esistenziale, nel vissuto di una civiltà.
È necessario dunque che il lavoro intellettuale si confronti, a rischio di percosse e ferite, con la realtà e la natura affinchè possa contribuire a fondare i presupposti di un “risorgimento” (invocato non a caso da uno dei personaggi del libro), se non addirittura di una conversione, verso una coscienza nuova, e compiere quell’atto così eroico e al contempo naturale e umano di “liberare la vita”, come ebbe modo di definirlo il filosofo Stirner.
Più volte durante il viaggio i personaggi del libro sembrano approcciarsi a questo bivio, alternando nel dialogo momenti di comprensione e irritazione, aprendosi verso l’altro per poi chiudersi repentinamente e nuovamente in sé stessi. Ed è naturale che sia così. Quando il viaggio finisce, ciascuno di loro scenderà dalla carrozza congedandosi con un arrivederci che sarà probabilmente un addio. Ma non si può dire con certezza, perché, se le storie finiscono, il viaggio è destinato a continuare.
In treno
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: In treno
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