Foto di Adolfo Frediani
Il cognome delle donne di Aurora Tamigio (Feltrinelli, 2023) è il libro dei record: ha venduto oltre 100 mila copie in un solo anno, ha vinto il Premio Bancarella 2024 con 185 voti sui 188 disponibili, il Premio John Fante “Opera Prima” e anche il premio letterario “IO Donna-Eroine d’oggi”.
Il segreto? Una narrazione fluviale che non lascia scampo e ci restituisce tutta la capacità affabulatoria delle grandi storie, senza tralasciare il significato politico e simbolico della letteratura; ma soprattutto lei, la sua autrice, l’esordiente Aurora Tamigio, che afferma di aver voluto scrivere un libro “popolare” che potesse tramandare i racconti dimenticati delle donne, comprese quelle della sua famiglia, la mamma, le nonne, le zie, alle quali deve l’ispirazione.
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Parlare con Aurora Tamigio restituisce tutta la forza trascinante della sua scrittura e permette anche di comprendere le ragioni del successo straordinario di questa giovane autrice. Aurora infatti spiega che la scrittura è un dialogo, nasce in solitudine ma poi si sviluppa attraverso il confronto continuo, lo scambio, anche con la fatica; scrivere vuol dire tornare più volte sulla stessa pagina, modificare un personaggio, se necessario. Lei ama il dialogo con i lettori perché ritiene che le permetta di crescere e, con molta umiltà, afferma di aver vissuto questo suo primo libro, Il cognome delle donne, come un’avventura, perché il suo unico interesse non era quello di vincere premi, vendere o altro, ma semplicemente scrivere la “sua storia” nel miglior modo possibile.
Non dovrebbe esserci aspirazione più grande per uno scrittore ed è un bene che, in un mondo in cui i numeri sembrano essere tutto - ogni cosa sembra essere misurabile, quantificabile, ipotizzabile - qualcuno vada controcorrente e ci ricordi l’importanza delle storie, la bellezza, anche salvifica e democratica, delle storie.
Ne abbiamo parlato con Aurora Tamigio in questa intervista.
- Hai dedicato la vittoria del Premio Bancarella: “Alla mia mamma, alle zie, alle nonne, perché mi hanno insegnato come si fa a essere donne e anche come non si fa.” Dici che l’ispirazione per Il cognome delle donne è nata da loro. Sono loro le vere personagge?
Sono loro le ispiratrici di questa storia, perché la mia famiglia è una famiglia di donne, in cui inevitabilmente si raccontano tante storie di donne. Le mie nonne sono spesso protagoniste di racconti leggendari. Da bambina chiedevo sempre: “Ma queste storie sono vere?”. Poi, crescendo, la narratrice che è in me ha smesso di domandarselo, non aveva più importanza se fossero vere o no, era interessante che potessero essere protagoniste di un libro. Ed è quello che ho fatto.
Il libro è dedicato a loro, alle donne della mia famiglia, come si vede dalla prima pagina, le ho sempre avute davanti agli occhi mentre scrivevo. Il romanzo poi ha preso una deriva lontanissima dalla storia della mia famiglia; ma loro sono state di ispirazione, per tanti motivi. Ad esempio il linguaggio del libro è un “linguaggio semplice”, mi è anche costato fatica scriverlo in modo così semplice, perché io immaginavo per il mio libro delle lettrici come loro, che sono donne curiose ma la sera sono stanche, hanno pure poco tempo per leggere e meritano una storia che le rapisca. Volevo che questo libro fosse letto da loro.
- E come si fa a “essere donne” e “come non esserlo”, l’hai imparato?
Io, come tante ragazze poi divenute donne, ho avuto una fase di rifiuto verso un certo modello di femminilità. Mi sembrava che le donne della mia famiglia non fossero mai abbastanza emancipate, che avessero idee retrograde, spesso le accusavo di essere subalterne rispetto alle loro vite. Questo romanzo, questo passo indietro nella storia della mia famiglia, mi ha fatto pensare che in fondo le donne non ci devono niente, non ci devono insegnamenti. Mi ha fatto pensare che noi giovani spesso tendiamo a giudicarle con i nostri occhi, ma non siamo veramente in grado di capirle o di ascoltarle. Io sono convinta che loro mi abbiano insegnato tante cose che io non ho appreso o forse non ho voluto apprendere. Anche nelle cose per cui io sono convinta di “non voler essere come loro”, c’è un insegnamento molto forte in fondo.
- Il tuo libro ha anche un significato politico, a partire dal titolo Il cognome delle donne. Oggi stiamo assistendo a un anacronistico ritorno del patriarcato, al tentativo di eliminazione dell’uso del femminile negli atti ufficiali, eccetera. Secondo te la letteratura può fare politica?
Quello che mi affascinava è il paradosso: questo libro parla di eredità femminile, ma in Italia fino al 1975 - con la riforma del diritto di famiglia - non esisteva il patrimonio femminile, le donne non possedevano patrimoni e di conseguenza non li trasferivano. Eppure, nonostante questo, in ogni casa ci sono degli oggetti ereditati dalle nonne, dalle zie, così come ci sono delle cose che abbiamo imparato solo grazie a un’altra donna. Quindi in realtà il concetto di eredità femminile esiste. Il cognome è la prima eredità che ci viene data nella vita, ma non ci viene data da una donna. Ancora oggi le percentuali di bambini con doppio cognome o con il cognome materno sono basse.
Mi interessava questa doppia riflessione, la domanda che racchiude; il cognome riflette un tema di identità. Sono contenta se l’hai trovato un libro politico, perché per me lo è, a iniziare proprio dal fatto che è scritto in modo semplice.
La stessa Elsa Morante, per scomodare una gigante della letteratura, quando ha scritto La Storia voleva che fosse letto da un pubblico popolare. Io penso lo stesso: se tante persone leggono questo romanzo allora si relazionano a un concetto di identità femminile inteso come percorso condiviso, perché siamo parte di una stessa storia, che fino al 1946 non ci ha visto nemmeno protagoniste del voto. Molti diritti ce li siamo guadagnati strada facendo. Questa è una storia che ci riguarda ancora tutte.
- Nel libro parli proprio del 2 giugno del 1946, il primo voto alle donne, narrando un episodio dall’impatto simbolico. Rosa regala il rossetto, che è stata costretta a togliere, alla figlia Selma, come un ideale passaggio di testimone. Ciò che un tempo è stato invisibile oggi non deve esserlo più?
È un episodio storico, è durato pochi anni, ma agli albori del voto quando la busta veniva chiusa con la bocca veniva chiesto alle donne di togliersi il rossetto, per non identificare il genere. Io l’ho trovato simbolico perché nel momento in cui le donne vengono ammesse a essere cittadine, come dice la storica delle donne Valeria Palumbo “smettono di essere considerate delle eterne minorenni dallo Stato”, viene loro chiesto di privarsi di un tratto simbolico della femminilità. L’idea che dovessero privarsi di questa cosa l’ho trovata una sorta di premonizione di ciò che spesso viene chiesto alle donne in certi luoghi pubblici o ambienti di lavoro, ovvero privarsi, come dici tu, di un tratto visibile che le identifica in quanto tali.
- Nella storia anche le donne “comparsa” svolgono un ruolo simbolico. Penso alla Cuttancina che insegna a Selma a cucire, o alla Medica che cura Rosa e le insegna a prendersi cura degli altri. C’è una forma di apprendistato femminile?
Volevo trasmettere il concetto dell’eredità, delle esperienze che vengono trasferite, ma anche il concetto di Maestra, ognuno di noi credo ne abbia avuto una nella propria vita. Mi sono accorta che i ringraziamenti del mio libro sono pieni di donne, perché in effetti ho avuto la fortuna di avere tante maestre. La Medica, la Cuttancina, sono delle maestre ma anche qualcosa di più, sono delle figure che indirizzano Rosa e Selma verso una strada nella vita.
- I personaggi maschili non sono secondari, anzi sono molto sfaccettati. In una precedente intervista hai detto che volevi ribaltare l’archetipo della donna-angelo costruendo l’uomo-angelo. Ci sei riuscita?
Ho trovato l’ispirazione per Sebastiano Quaranta in un romanzo celebre della nostra letteratura Le strade di polvere di Rosetta Loy, che io amo molto. In quel romanzo ho trovato il tipo di fantasma che cercavo io, un fantasma confortante che entra nelle vite delle protagoniste quando loro ne hanno bisogno. Più simile a un uomo-angelo che a un fantasma. Il personaggio di Sebastiano Quaranta, marito di Rosa, è un personaggio immateriale, secondo me si distanzia dagli altri personaggi maschili del libro che rappresentano tante tipologie di uomo. I personaggi della storia mostrano come il mondo maschile, mentre cambiava il mondo femminile, ha saputo modificarsi altrettanto.
- Gli oggetti hanno un forte potenziale simbolico, ricordano il correlativo oggettivo di Montale. La macchina da cucire “Singer” di Selma che viene tramandata alle figlie è una metafora potente dell’eredità femminile, ed è un oggetto che si trova spesso nelle nostre case. Secondo te gli oggetti custodiscono delle storie?
Questa eredità delle donne è fatta anche di beni materiali. Nel libro si parla tanto di oggetti, di soldi, di muri, di case, di cose che vengono trasferite. Ci sono tanti oggetti che ho selezionato per la storia. Trovavo nella macchina da cucire un oggetto simbolico del femminile, perché tante donne nella loro vita hanno fatto le sarte o le ricamatrici. È stato forse uno dei primi lavori che le donne potevano fare in maniera professionale, perché non era neanche necessario uscire di casa e potevano continuare a badare ai figli. E, simbolicamente, una Singer si trova in molte case ancora oggi, forse è il segno più tangibile di questa eredità femminile.
- Le tre sorelle, Patrizia, Lavinia, Marinella, ricordano un po’ le sorelle March di Louisa May Alcott. Sono diverse, ma complementari. A quale delle tre senti di assomigliare di più?
Piccole donne è stata una grande ispirazione, lo considero se non proprio il mio preferito, sicuramente il libro della mia vita. Lo rileggo più o meno una volta all’anno, vicino a Natale. Mi ha ispirato tantissimo per come Louisa May Alcott racconta il mondo delle relazioni, soprattutto il rapporto tra sorelle inteso in maniera conflittuale, non idilliaco come viene spesso scritto, a mio parere sbagliando, a proposito di questo libro.
Il personaggio delle tre a cui mi sento più legata è Lavinia, in parte per un fatto tecnico perché è il personaggio su cui ho passato più tempo. Mentre facevamo la revisione della prima stesura lei non convinceva mai le editor della casa editrice e quindi dovevo sempre motivare le sue azioni, difenderla. Poi Lavinia custodisce molti segreti, è il cuore di questa storia, conserva l’eredità delle donne venute prima di lei.
Nel momento in cui Selma sta morendo, Lavinia vede il tempo materializzarsi davanti a lei, con tutto quello che ha perso e perderà, pensa a come sarà la sua vita senza sua mamma. Questo episodio mi è stato ispirato da Orhan Pamuk, Il museo dell’innocenza, che inizia proprio con uno degli incipit più belli della letteratura: “Era uno dei momenti più belli della mia vita, ma io non lo sapevo”. Ecco, noi non sappiamo mai quale sarà il momento più bello o più triste della nostra vita, purtroppo o per fortuna.
- Il cognome delle donne è il tuo romanzo d’esordio e ha avuto un successo straordinario di pubblico e di vendite. Come hai vissuto tutto questo da giovane autrice?
Questo libro, nelle sue prime pagine, nasce all’interno di un corso di scrittura che si chiama “La Bottega di narrazione”. Me l’ha regalato per il compleanno mio marito, perché io mai mi sarei sognata di iscrivermi a un corso di scrittura, mi sembrava di professionalizzare una cosa che io ho sempre fatto con gioia e con piacere, temevo che poi avrebbe perso il suo fascino. In realtà non è stato così.
La prima stesura è stata un’avventura, è stato divertentissimo; poi la fase di revisione con la casa editrice Feltrinelli mi è piaciuta molto, mi sono accorta che è quasi un lavoro di ricamo, devi cercare l’aggettivo, l’avverbio giusto. Tutto quello che è venuto dopo l’ho preso così come arrivava, senza aspettarmi niente. C’è stata la parte bella e anche la parte meno bella, quando ad esempio le persone non capiscono il romanzo o addirittura lo detestano, perché lo riducono alla copertina con i fiori e al titolo con la parola “donne”.
Ma grazie a questo libro sto facendo delle cose straordinarie. Il Premio Bancarella è stato incredibile, essere premiata dai librai è un onore e un’emozione, perché poi i librai sono i veri lettori di professione.
- Cosa pensi delle polemiche attuali sulla “scrittura femminile”? Ti sei mai sentita messa in discussione in quanto donna-scrittrice?
La “scrittura femminile” non esiste, almeno che non esista anche la “scrittura maschile”. Io metterei uno scaffale nelle librerie con scritto bene in grande “Scrittura maschile”, perché secondo me, in fondo, esiste. Dire che alcune autrici fanno “scrittura femminile”, significa chiudere le donne in un recinto e sminuirle. A me questo fa molto arrabbiare, perché io non saprei dire cos’è la scrittura femminile.
Potrei dire che ci sono dei temi che le donne che scrivono affrontano in maniera più rilevante o consistente. Perché gli uomini non parlano di aborto? Perché non sono in grado di parlare dello stupro o della violenza? Perché quando parlano della madre lo fanno in una maniera piena di cliché? Forse perché sono meno influenzati da questi temi, ne sono meno impattati. Allora io questo lo rispetto, però non rispetto che si dica che certi temi poi sono stati monopolizzati dalle donne o che le donne guadagnano solo parlando di certi temi. Semplicemente ci sono temi sui quali la sensibilità è più alta; alcuni ne scrivono, alcuni no.
- Ultima domanda, ma attenzione perché è insidiosa. Elsa Morante si definiva scrittore e così anche Oriana Fallaci. Tu ti definiresti “scrittore” o “scrittrice”?
Ho letto un libro che mi ha molto ispirato in questo senso: I margini e il dettato di Elena Ferrante, un saggio sulla scrittura.
C’è un passaggio che lei chiama “Il tradimento dei maestri”, quando lei racconta che alcune cose che tu vuoi raccontare nei grandi libri scritti da scrittori che ti hanno formato come lettrice non ci sono: pensiamo a Anna Karenina, a Madame Bovary, a Ursula di Cent’anni di solitudine, non sono personaggi pienamente “femminili”, perché sono narrati da uno sguardo maschile.
Quindi in quale letteratura sta l’ispirazione per quello che io davvero voglio scrivere?
In una letteratura che non ho studiato a scuola, che non trovo nei libri, che fino a una ventina di anni fa non c’era neanche nelle librerie. Il tradimento dei maestri è anche, ribaltandolo, l’ingresso delle Maestre nella nostra scrittura: per me è stato l’incontro con Alba de Céspedes, con Rosetta Loy e molte altre.
Io mi sento molto più scrittrice, almeno finché non avrò superato questo senso di colpa, questo “tradimento dei maestri”, come lo definisce Ferrante.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista ad Aurora Tamigio, autrice del caso letterario “Il cognome delle donne”
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