Pelleossa (minimum fax, 2023), l’ultimo romanzo di Veronica Galletta – autrice finalista al Premio Strega 2022 con Nina sull’argine – è un libro strano, che non somiglia a nulla di quanto è stato già scritto, o forse è strano proprio perché ricorda quanto è stato già scritto e ce lo presenta in modo diverso, servendosi dell’arte affabulatoria propria dei racconti antichi, seguendo una tradizione che trae origine dall’oralità. È un libro scritto in una lingua mista, un impasto sonoro e unico di italiano e dialetto siciliano, capace di restituirci il piacere del “cunto” che ha radici nella passione popolare per le storie, nel rapporto atavico tra poesia e oralità. Veronica Galletta allestisce la scena narrativa usando i suoi personaggi come in un moderno teatro dei pupi, combinando satira e dramma, performance e musicalità linguistica.
Pelleossa è una narrazione corale che riporta in vita una Sicilia reale e immaginifica al contempo, mescolando verità storica e tradizione fiabesca. La vicenda è filtrata attraverso gli occhi di un bambino di sette anni, Paolino Rasura della famiglia dei “Pelleossa”, che in queste pagine cresce rivelando la storia minuta del popolo che si cela dietro la grande Storia, a partire dallo sbarco degli americani in Sicilia nel luglio del 1943.
Paolino è un bambino strano, riflessivo, che gli altri chiamano “Ncantesimo” per la sua abitudine a fantasticare e perdersi; per sfuggire alle persecuzioni degli altri bambini tenterà una prova di coraggio e così stringerà amicizia con Filippo Bentivegna, un uomo solitario che vive isolato nel suo giardino dove scolpisce ossessivamente delle teste. Gli abitanti del Paese lo considerano pazzo e hanno paura di lui, ma Paolino scopre in Filippo il proprio stesso “incantesimo” e si riconosce in quel mondo di teste parlanti, dove nessuno gli affibbia nomi dettati dal pregiudizio o dall’ipocrisia popolare. Filippu è il primo a dire a Paolino: “Non m’anteressa a cu apparteni”, “non mi interessa a chi appartieni”. Ed ecco che il discorso sull’identità si intreccia alla narrazione quasi favolistica dell’Infanzia, della Vita e della Morte sullo sfondo dell’immaginaria località siciliana di Santafarra che “s’allungava sul mare come una ciucertola”. Narrazione personale e corale, al contempo, Pelleossa fa propria la tradizione della grande letteratura ed è anche un omaggio all’arte stessa di raccontare storie.
Ne abbiamo parlato con Veronica Galletta in questa intervista.
- Ha raccontato che Pelleossa è nato da una canzone dedicata a Filippo Bentivegna. Cosa l’ha catturata di quel personaggio?
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C’è questa canzone dei Virginiana Miller, Bentivegna, che credo sia del 1999, ora non mi ricordo il titolo dell’album. Comunque il testo dice: “dicono che vuoi bruciare Sciacca, tieni Filippo, ecco i cerini”. Questa la parte corale del popolo che parla a Filippo e a cui lui risponde, “mi sono testimoni Toro Seduto, Garibaldi e Vittorio Emanuele”, che erano proprio le teste che Bentivegna scolpiva. Quindi già in questa canzone c’erano degli elementi interessanti; per esempio “Mattanza, mattanza di me sulla banchina del porto” dice un altro verso. Si narra che il personaggio di Filippo Bentivegna, realmente esistito, abbia ricevuto una bastonata sulla banchina del porto degli Stati Uniti e ritornò quindi in Sicilia per questo motivo. In questa canzone c’erano, in fondo, già tutte le cose presenti nella trama del libro: la storia d’amore per lei, per Meri – la bastonata gliela dettero per questa donna – le teste scolpite – che poi nel mio romanzo diventano parlanti, a loro modo protagoniste – e il fatto che il Paese lo prendesse in giro, perché lo riteneva matto. Piano piano ho cominciato a lavorare su questi elementi. Chiaramente ero affascinata da questo personaggio ossessivo, un uomo che si chiude nel suo giardino e scolpisce ininterrottamente per tutta la sua vita; secondo me per una persona che scrive è inevitabilmente un personaggio interessante.
- Forse perché il gesto di scolpire le teste richiama l’atto della scrittura? La creazione dei personaggi?
Sì, perché il gesto della scrittura è un gesto ossessivo. Io una volta, diverso tempo fa, ho fatto un conto delle battute che avevo scritto sino a quel momento, ed erano due milioni e mezzo. Quindi accade così, trovi un po’ di consonanza con un personaggio e cominci a scriverci. Filippo Bentivegna è un personaggio che mi interessa perché, in qualche maniera, mi risuona. Questa ovviamente è una cosa che ho capito dopo, lì per lì tu semplicemente segui la storia, cerchi di formare una lingua. Il primo personaggio della storia è stato Filippu, poi è venuto Paolino. Oltretutto San Paolo è il protettore dei serpenti e ci sono dei riferimenti nel romanzo, a partire dalla ciucertola nelle prime righe. Questi, però, sono tutti fili che colleghi dopo, a scrittura conclusa.
- In una precedente intervista ha detto che il libro ha richiesto numerose stesure, acquisendo forma attraverso la scrittura, come un impasto. È vero che all’inizio la storia era raccontata dal punto di vista di Filippo Bentivegna e non di Paolino?
Questo romanzo è iniziato in forma di singoli monologhi. Con un monologo avevo vinto pure un premio al Teatro della Tosse di Genova nel 2013, quindi dieci anni fa. Comunque mi sono resa conto che era una storia che non poteva essere scritta in prima persona perché filtrandola da un solo punto di vista ne avrei persi dei pezzi. Facendo parlare Filippo Bentivegna in prima persona avrei finito per macchiettizzarlo, e io non volevo fare di lui una macchietta, lui per me era un uomo come tutti gli altri. Non un pazzo, ma un “tanticchia originale” come dice il nonno a Paolino. Quindi per questo mi sono spostata in terza persona e pian piano da lì hanno iniziato a nascere anche tutti gli altri personaggi, tra cui Paolino, che all’inizio era un adulto: si chiamava Paolo e faceva il postino, poi è diventato un bambino di sette anni che cresce tra le pagine.
- Paolino è un personaggio che colpisce. Di solito l’infanzia viene ritratta come una stagione spensierata, invece ci viene presentato questo bambino molto solo, che si sente strano e si pone domande esistenziali: “Io chi sono? A chi appartengo?” È una visione molto umana e realistica dell’infanzia, a cui forse non siamo abituati.
Io credo che noi tendiamo a pensare all’infanzia come a un luogo spensierato, perché la nostra memoria per sopravvivere in qualche maniera deve selezionare, si deve ricordare solo alcune cose. Lo stesso tendiamo a fare con l’adolescenza, dipingendola come un periodo felicissimo: io al liceo ero disperata, non ero felicissima (ride, Ndr). E sui bambini quest’idea la applichiamo ancora di più, sbagliando. Simona Vinci con il libro Dei bambini non si sa niente è stata comunque un’autrice che ha parlato dei bambini in maniera diversa. Io penso che i bambini pensino molto alla morte; è una riflessione che ho fatto probabilmente su me stessa. Io stessa sono stata una bambina particolare, anche perché ho avuto un incidente e per un periodo sono stata costretta a stare ferma. Però ho visto la stessa cosa anche in mio figlio, ad esempio. I bambini se le pongono veramente alcune domande. E nel libro mi piaceva poter restituire proprio tutte le sfumature all’idea d’infanzia, perché sennò diventa veramente retorica: non è più raccontare un bambino, ma bamboleggiare attorno a un bambino.
E sarebbe stato orrendo.
- Paolino è un bambino che va più d’accordo con gli anziani che con i suoi coetanei, è molto legato al nonno Silvestro, poi diventa amico di Filippo e di zio Ntoni. Fabrizio De André diceva che “Essere sé stessi è una virtù esclusiva dei bambini, dei matti e dei solitari”. Leggendo queste pagine si direbbe che lei è d’accordo, no?
Dialoga con queste persone più anziane di lui, che sono soprattutto dei saggi. Io credo che la vecchiaia abbia dei punti in comune con l’infanzia; è quel momento della vita in cui tu non hai niente da perdere. Quando sei piccolo non lo sai cos’hai da perdere, perché non hai abbastanza esperienza; quando sei vecchio hai fatto talmente tanta esperienza che in fondo non hai più niente da perdere. Sono due estremi che si toccano. Io credo che, anche se in maniera diversa, tutti i bambini se la facciano la domanda: “Ma io di chi sono? Io a chi appartengo?” È una cosa che mi affascina.
- Il libro è una storia corale, ma parla soprattutto di quanti si trovano ai margini, che alla fine sono i soli che hanno il coraggio di dire – e di vedere – le cose come stanno. Pelleossa è il nome che viene dato al protagonista e alla sua famiglia, una sorta di identità sociale che sostituisce l’identità vera. È come se il nome sociale privasse il soggetto del suo vero io?
Tanti personaggi sono una cosa, ma in realtà ne sono un’altra. Questa penso che sia una cosa che mi riguarda intimamente. Il primo è Zu Ntoni, no? Del quale scopriamo che c’è una vita passata della quale lui non vuole più parlare. E questo riguarda un po’ tutti, noi pensiamo di sapere con chi stiamo parlando, ma ce ne facciamo inevitabilmente comunque una figura attraverso il pregiudizio. E Paolino è una cosa che sente molto forte. Lui scopre chi è davvero suo nonno Silvestro quando va al funerale e cantano i canti degli anarchici. Perché è così, gli altri hanno pezzi di vita che ci sono nascosti. Anche i nostri figli. È una cosa bella, in realtà; spaventosa, ma bella.
- Un altro elemento che affascina del romanzo è la lingua. Questo impasto tra dialetto e italiano è molto melodioso, più che leggere sembra di ascoltare una musica. Tutti i suoi romanzi sono molto sperimentali dal punto di vista linguistico, perché in questo ha scelto di utilizzare il dialetto?
La scrittura è davvero il mio spazio di libertà, nasce dal fatto che per me questa è una seconda vita. Io ho avuto attraverso la scrittura una nuova vita, completamente diversa. Proprio una seconda occasione rispetto a quello che facevo prima. E allora sento che devo fare tutto nello spazio di una pagina, per me è gioco e sperimentazione. Per me questa lingua è nata insieme al personaggio: le prime parti che ho scritto su Filippo erano in questa lingua. In un certo senso è la lingua che si porta la storia. Se io lo riscrivessi in italiano, come mi ha consigliato qualcuno, diventerebbe un altro libro.
- Con Le Isole di Norman ha vinto il Premio Campiello Opera Prima nel 2020, mentre con Nina sull’argine è arrivata finalista allo Strega e ha vinto il Premio Letteratura d’Impresa 2022. Ho scoperto che invece con Pelleossa è stata finalista al Premio Neri Pozza nel 2017, ma il libro è stato edito soltanto quest’anno. Quindi è stato questo il suo primo romanzo?
In un certo senso tutti i miei libri sono rimasti inediti. Nel senso che nel 2013, quindi circa dieci anni fa, ho cominciato a lavorare a tre libri, quindi a tre storie che ho portato avanti e ho finito nell’ordine in cui sono uscite. Le Isole di Norman nel 2014, Nina sull’argine nel 2015 e questo l’ho finito per ultimo, nel 2016, però fino al 2020 nessuno ancora pubblicava ciò che scrivevo.
Quindi sono usciti in ordine di come li avevo scritti. Io scrivo sempre varie storie contemporaneamente, fino a che non mi disturba così tanto questo disordine che lo devo finire. Pelleossa, questo libro, l’ho finito per ultimo perché sapevo che per lui dovevo essere più brava, non ero abbastanza brava. La scrittura è allenamento continuo in fondo, no?
Questo per me è un libro molto gioioso, perché poi i libri hanno questa cosa pazzesca per cui tu stai parlando del 1943, però contemporaneamente stai parlando del 2015 e del 2016 della tua vita. Le Isole di Norman è stato un po’ il libro della depressione, della tristezza; Nina sull’argine è stato il libro della rabbia; questo, Pelleossa, è il libro della contentezza. Io dico sempre che l’ho scritto ridacchiando.
- Ho giocato a rintracciare le influenze letterarie presenti nel romanzo e ho trovato vari scrittori siciliani. Mi dica se ho indovinato: c’è il Verga dei Malavoglia e anche del Ciclo dei vinti, poi Sciascia, Pirandello. Me ne sono persa qualcuno? Ha voluto rendere omaggio alla letteratura siciliana?
Non avevo pensato a Verga, in realtà, ma sono contenta che l’hai trovato. Per la struttura di ogni capitolo mi sono ispirata a Pinocchio di Collodi. Il titolo di ogni capitolo, se ci fai caso, è già una specie di raccontino. L’esergo invece si riferisce al Teatro della Memoria di Sciascia, dedicato allo Smemorato di Collegno, una vicenda di cronaca realmente accaduta negli anni Venti. La stessa idea alla base della storia di Sciascia è ripresa all’interno del mio libro: c’è un segreto, il segreto di Pelleossa, attorno al quale ruota tutto, ma del quale non si parla mai. Comunque dentro la storia ci sono anche dei riferimenti precisi a Sciascia: il comandante Canella, lo smemorato di Collegno. Le teste che parlano sono molto pirandelliane. Ritorna poi il tema delle maschere di Pirandello, che tra l’altro è anche una delle teste parlanti di Filippo Bentivegna. E a un certo punto Paolino si chiede “Io sono forse il figlio scambiato?”, altro tema ripreso in una novella di Pirandello.
- Ero curiosa di sapere di più sulla sua vita da scrittrice. Lei ha una formazione anomala, non umanistica: è laureata in ingegneria idraulica. Nel romanzo finalista allo Strega, Nina sull’argine, utilizzava anche un linguaggio tecnico sfidando la stessa forma letteraria. Riesce a conciliare i due aspetti: formazione scientifica e creatività letteraria? Come ha vissuto l’inattesa “settina” dello Strega 2022?
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Una decina d’anni fa ho cominciato a scrivere qualcosina e poi le storie rotolano, dopo una ne arriva un’altra e poi ne arriva un’altra ancora e mi hanno dato una seconda vita, completamente diversa dalla prima.
Del Premio Strega cosa posso dire? Sicuramente c’è stata molta emozione per l’ingresso nella settina perché si è vista in diretta e tutti hanno potuto condividerla. Però per me è stato ancora più emozionante l’ingresso nella dozzina finalista, quando ho saputo che un comitato così importante aveva letto e apprezzato il mio libro. Per me è stata quella telefonata la vera emozione. Mi ha colpito che dei lettori importanti avessero compreso un libro, comunque strano, come Nina sull’argine.
Ora la mia vita è più tranquilla. Certo, ci sono cose dell’ingegneria che mi mancano molto: la concretezza, la matericità, la fisicità, forse anche per questo i miei romanzi descrivono i luoghi così topograficamente, perché mi manca proprio quel modo di toccare le cose, di possederle. Però è senz’altro una vita molto più felice, in cui non devi sempre far fruttare il tuo tempo, perché il tempo che perdi sai che in realtà non lo stai perdendo davvero, comunque diventa “qualcosa”, diventa scrittura. L’ordine, la disciplina e il metodo che utilizzo quando scrivo, però, in fondo restano quelli dell’ingegneria.
Recensione del libro
Nina sull’argine
di Veronica Galletta
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Veronica Galletta, in libreria con “Pelleossa”
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