Ingeborg Bachmann è stata molte cose: scrittrice, giornalista, filosofa, speaker radiofonica, ma soprattutto è universalmente riconosciuta come una delle maggiori poetesse tedesche del secondo dopoguerra. Il suo esordio nel 1953, a soli ventisette anni, fu proprio un libro di poesie dal titolo Il tempo dilazionato, salutato in patria come un “miracolo”. L’autrice faceva parte del Gruppo 47, un movimento letterario di sinistra, nato a Monaco di Baviera, che si prefiggeva di far risorgere la cultura letteraria tedesca dopo il nazismo. La giovane Bachmann rappresentava una delle voci più nuove, originali, inattese e immaginifiche del movimento.
Il vertice della sua poetica è tuttavia considerato la raccolta Invocazione all’Orsa Maggiore , il secondo e ultimo volume di poesie dell’autrice, che sarebbe morta precocemente nel 1973 a Roma. La prima versione della poesia che dà il titolo al libro fu pubblicata per la prima volta, nel gennaio 1955, sulla rivista Merkur. Deutsche Zeitshrift für europäisches Denken.
L’intera raccolta sarebbe stata edita l’anno successivo, nell’agosto del 1956, a seguito di uno scritto della giovane autrice che chiedeva alla critica di non inchiodarla in interpretazioni. Il lirismo simbolico, evocativo, di queste poesie presentava infatti un tratto oscuro, quasi paralizzante: eppure, come la poetessa aveva cautamente previsto, lo stile fu immediatamente ricondotto a modelli classici della letteratura latina, quali Lucrezio, oppure al lirismo musicale di Rilke.
Possiamo leggere Invocazione all’Orsa Maggiore come una perfetta sintesi lirica della Bachmann, il punto di arrivo di una voce perentoria e battagliera, ma al contempo il suo più maestoso “canto della fuga”. “Fuga” infatti, nell’originale tedesco “flucht”, è uno dei termini più ricorrenti nel lessico poetico di Ingeborg Bachmann, a rimarcare la perenne inquietudine della poetessa austriaca, la sua solitudine senza nome, la sua ricerca affannosa che mai trova compimento.
In Invocazione all’Orsa Maggiore, che dà il titolo alla raccolta omonima edita l’anno scorso da Adelphi, Bachmann recupera il tono ascensionale della preghiera, come ben testimonia l’uso del termine “Invocazione”; ma lo scopo di elevazione spirituale è legato esclusivamente all’uso della parola creatrice, attraverso la quale la poetessa costantemente riformula la sua fuga.
Scopriamone testo, analisi e commento.
“Invocazione all’Orsa Maggiore” di Ingeborg Bachmann: testo
Scendi, Orsa Maggiore, notte arruffata
fiera dal manto di nubi, dagli antichi occhi,
stelle occhi,
nella macchia affondano, scintillanti,
le tue zampe con gli artigli,
stelle artigli,
vigili noi pascoliamo gli armenti,
pur da te ammaliati, e diffidiamo
dei tuoi fianchi sfiniti, degli aguzzi
denti dischiusi,
vecchia orsa.Un cono di pigna: il vostro mondo.
Voi: le sue squame.
Dagli abeti dell’inizio
agli abeti della fine
la rivolto, la sbalzo,
l’annuso, ne saggio il sapore
e l’abbranco.Temete e non temete!
Gettate l’obolo nella borsa,
all’uomo cieco una buona parola,
perché tenga l’orsa al guinzaglio.
E condite gli agnelli di spezie.Potrebbe quest’orsa
liberarsi, non più minacciando,
incalzando ogni pigna, dagli abeti
caduta, maestosi abeti alati,
precipitati dal paradiso.(Traduzione a cura di Luigi Reitani)
“Invocazione all’Orsa Maggiore” di Ingeborg Bachmann: analisi
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Nell’invocazione iniziale dell’Orsa Maggiore possiamo individuare una struttura dialogica cardine nella poetica di Bachmann. Sembra che l’io lirico si definisca continuamente in relazione con l’altrove, sia anche una ostinata ricerca del sublime. In questo la poesia di Ingeborg Bachmann ricorda il lirismo del suo maestro, Paul Celan, si nutre di corrispondenze. Il paesaggio, anche nel suo apparire simbolico, viene posto in stretta relazione con le sofferenze dell’essere umano. Nel lirismo vertiginoso cui approda Bachmann, con la sua invocazione ardente dell’Orsa, troviamo anche l’impeto della sua forza giovanile, cui forse non fu mai concesso il privilegio di maturare e, in qualche modo, risolversi. Per questo, nella sua eterna giovinezza, Ingeborg Bachmann sembra essere una poetessa del futuro: le sue parole criptiche, salvifiche, simboliche, sembrano essere messaggi in codice per l’umanità che verrà, un tesoro sepolto che attende di essere disseppellito. Ciò che la maggior parte dei critici non aveva intuito è che l’utopia, in Bachmann, traeva origine dalla forza propulsiva del trauma. Le poesie de Invocazione all’Orsa Maggiore erano figlie della Seconda guerra mondiale, non potevano essere concepite al di fuori del traumatico e rovinoso contesto storico nel quale si erano originate.
“Invocazione all’Orsa Maggiore” di Ingeborg Bachmann: significato
Cosa rappresenta l’Orsa Maggiore nella poesia di Bachmann? Si tratta indubbiamente di un simbolo. La critica tuttavia si divide riguardo la sua interpretazione: c’è chi vi coglie un riferimento alla Chiesa di Roma e chi, invece, una raffigurazione apocalittica della rovina del mondo. Tutti, comunque, sono concordi nell’affermare che a legare i versi della poetessa sia una forma di utopia; ciò che eleva la poesia è la speranza in un mondo migliore, più giusto, che si eleva al di sopra della miseria umana.
Nell’immagine dell’Orsa Maggiore troviamo la fascinazione dell’uomo nei confronti del sublime, non poi molto diversa dalla suggestione della luna nel Canto notturno di un pastore errante di Giacomo Leopardi. Anche qui la figura retorica predominante è quella dell’apostrofe: gli uomini ciechi, che pascolano gli armenti, interrogano speranzosi le vaghe stelle dell’Orsa in cerca di un presagio o, forse, di una consolazione. L’umanità si estrania da sé stessa attraverso la visione, ed è così che l’opera di Bachmann raggiunge i vertici assoluti del suo lirismo. Nella forza di una poesia che “spinge a vedere” risiede qualcosa di salvifico, proprio in virtù della sua provenienza filosofica.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Invocazione all’Orsa Maggiore”: la poesia salvifica di Ingeborg Bachmann
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