L’Agnese va a morire
- Autore: Renata Viganò
“Una sera di settembre l’Agnese tornando a casa dal lavatoio col mucchio di panni bagnati sulla carriola, incontrò un soldato nella cavedagna”.
Nell’autunno del 1943 durante la II Guerra Mondiale nelle valli di Comacchio la lavandaia Agnese “dalla faccia bruciata dall’aria” aveva accolto in casa un soldato dell’esercito italiano, il quale, nel caos che era seguito dopo l’8 settembre stava tornando a casa. Ma il conflitto non era ancora finito e Agnese era convinta che “i guai peggiori siano ancora da passare”. Il marito della lavandaia, Paolo Ottavi detto Palita, trascorreva i giorni seduto sotto il portico dell’abitazione o dentro casa presso la finestra, mentre fabbricava scope, panieri e impagliava fiaschi.
“Era l’unico lavoro che poteva fare: da giovane era stato molto ammalato”.
Finora erano stati parecchi i soldati sbandati che Agnese aveva accolto nell’aia, tutti accomunati da una fame arretrata, esasperata dalle soste nei fossi e sotto gli alberi. Un brutto giorno erano però arrivati i tedeschi e la campagna era stata guastata dai
“loro aspetti meccanici disumani, pelle, ciglia, capelli quasi tutti di un solo colore sbiadito, e occhi stretti, crudeli, opachi come di vetro sporco”.
Quei soldati si erano portati via Palita trascinandolo dentro un camion tirandolo per le braccia. “Fermati Agnese, mi raccomando la gatta... “ erano state le ultime parole che la donna aveva sentito pronunciare da suo marito, le altre se le era portate via il motore del camion che andava sempre più forte.
“Il mondo senza Palita sembrava un altro, nuovo, estraneo, dove lei non avrebbe più lavorato: le diventava inutile la sua vecchia forza da contadina”.
Agnese era convinta che Palita avrebbe fatto una brutta fine, quindi la notizia della sua morte avvenuta all’interno di un vagone di un treno merci che lo stava conducendo in Germania (“non ha fatto fatica a morire”), non era stata una sorpresa per la lavandaia.
“Nasceva invece in lei un odio adulto, composto ma spietato, verso i tedeschi che facevano da padroni, verso i fascisti servi, nemici essi stessi tra loro, e nemici uniti contro povere vite come la sua, di fatica, inermi, indifese”.
Quando un soldato nazista ubriaco, aveva sparato per gioco alla gatta uccidendola, Agnese non aveva esitato un attimo: aveva preso un fucile e con questo aveva colpito in testa il soldato tedesco. Non restava altro da fare che fuggire e rifugiarsi presso i partigiani, diventando lei stessa una partigiana. “Se loro vi pescano, ci rimettete la pelle”.
Renata Viganò (1900 – 1976), che aveva esordito giovanissima con una raccolta di versi, pubblicava nel 1949 il suo romanzo capolavoro, tradotto in quattordici lingue e vincitore nello stesso anno del Premio Viareggio, attingendo alla sua esperienza partigiana come staffetta e infermiera. Nell’introduzione al volume Sebastiano Vassalli, tra le altre cose, scrive che
“si ha la sensazione, leggendo, che le Valli di Comacchio, la Romagna, la guerra lontana degli eserciti a poco a poco si riempiano della presenza sempre più grande, titanica di questa donna. Come se tedeschi e alleati fossero presenze sfocate di un dramma fuori del tempo e tutto si compisse invece all’interno di Agnese, come se lei sola potesse sobbarcarsi il peso, anzi la fatica della guerra”.
Il libro è la cronaca fedele di giorni bui e pieni di episodi di valore compiuti da gente comune, analfabeta come Agnese, mentre si susseguono rastrellamenti nazisti, tradimenti e fughe. L’autrice ci ricorda quella che fu la Resistenza alla quale parteciparono soldati, civili, uomini, donne e adolescenti, perché non si può restare solo a guardare. Quella stessa umanità era consapevole che alla fine del conflitto ci sarebbe stato un intero mondo da ricostruire. Nei piccoli paesi come quello dove viveva Agnese, se i tedeschi avevano requisito la radio perché era sintonizzata su Radio Londra, c’era invece una radio che funzionava in permanenza, radio-popolo:
“si sa tutto di tutti, e la fonte di informazione rimane oscura e segreta”.
Colpisce la bravura della scrittrice bolognese nel sapersi soffermare nel dettaglio rivelatore di uno stato d’animo, come avviene nelle poche righe del libro nelle quali le cartoline dei deportati provenienti dalla Germania rappresentavano un motivo di speranza per le famiglie che piangevano di gioia al riceverle. “Bastava quel nome scritto da lui, vivo”, lontano, chiuso in un campo di concentramento, ma vivo, testimonianza cartacea da custodire gelosamente, infilata negli sportelli della credenza in cucina fra il vetro e la cornice, che conservava “il senso di una presenza”.
L'Agnese va a morire
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