L’albero di Shel Silverstein

Andavo all’asilo quando mi lessero “L’albero” di Shel Silverstein e da allora l’ho amato più di qualsiasi altro libro al mondo.
L’avvincente e poetica storia d’amicizia tra l’albero e il bambino è tanto affascinante da riuscire a stordire persino un bambino che sembra di non sapere, ma sa, perché può vedere tutto.
Ogni amicizia è una poesia: questo ci dice il mini-capolavoro del poeta statunitense, giusta o ingiusta che sia.
Ma l’amicizia, il rapporto sconcertante tra uomo e natura è ancora più poetico.
L’albero, la natura, l’intimo amico si piega sempre all’uomo, all’opportunista, cercandolo di aiutare in tutto e per tutto anche se l’opportunista sembra dimenticarsi di tutto e di questo legame che li unisce.
Col passare del tempo ognuno di noi si rende conto di essere solo e rimane solo in un universo che, purtroppo o per fortuna, non riesce a capirlo e non capisce.
Quindi c’è bisogno di poco: non di un carriera, non di una casa accogliente, ma di un amico.
Un ceppo. Un pensatoio per riflettere su un’intera esistenza e per ricongiunsi a colui che non c’ha mai abbandonato e che ci vuole sempre aiutare, l’albero, l’amico, la natura: ciò che c’è di più importante nella vita.
Per tutto questo bisogna dire che Silverstein è un genio e “L’albero” è un capolavoro.
In un’opera laconica e concisa, in una piccola opera “per bambini” l’autore descrive con grazia irraggiungibile la vita e i suoi stenti, l’amicizia, le sue delusioni e i suoi pregi e l’importantissimo rapporto uomo-natura che probabilmente è da considerare il più importante ed è quello che noi dobbiamo ricreare, cercando di dare alla natura, non soltanto di rubare e distruggere.
Forse io ragiono troppo, forse sarebbe più giusto che io scrivessi ciò che scrissero su Publishers Weekly, forse sarebbe più giusto che io scrivessi semplicemente che “L’albero” è

“una di quelle rare opere che sembrano sfidare ogni genere di classificazione, irriverenti e riverenti, semplici e sofisticate”

perché queste parole son le più adatte.