L’alfabeto di fuoco
- Autore: Ben Marcus
- Genere: Fantascienza
- Categoria: Narrativa Straniera
- Anno di pubblicazione: 2022
Il dibattito sul linguaggio inclusivo, sull’attenzione e la scelta delle parole è sempre un tema delicato; spesso la discussione finisce con la banale ripetizione dell’aforisma di Nanni Moretti “le parole sono importanti”, senza però giungere a delle conclusioni chiare e definite. Cosa succede però quando il linguaggio diventa tossico, quando le parole che sentiamo pronunciare diventa nocive e ci fanno ammalare?
Le cosiddette “piazze virtuali” dei social che avrebbero dovuto favorire e accrescere lo scambio democratico di opinioni e la condivisione libera dei saperi si è trasformata in una lotta tutti contro tutti, in una gara a chi urla più forte, a chi riesce a ottenere la ragione a ogni costo, sacrificando sull’altare dei social la verità, l’accuratezza e il rispetto nel dialogo.
“Qualunque cosa la gente sapesse, la esprimeva con una forza disperata, ed eri pazzo a non crederci. Ma se mettevi insieme le varie idee per forgiare un sapere collettivo, il veleno sgorgava da ogni creatura parlante.”
È come se le parole contenessero un veleno che mira a distruggere l’avversario; a ben pensarci, siamo spesso circondati di parole tossiche, di parole che feriscono, di termini o espressioni che se scelte in modo poco appropriato o inclusivo rischiano di escludere, emarginare, affossare l’altro. Ben Marcus con il suo romanzo L’alfabeto di fuoco (Black Coffee, 2018, traduzione di Gioia Guerzoni) fa proprio in qualche modo tutto questo per proporci una situazione limite, distopica, ma potenzialmente verosimile: in un’America (del futuro?) si sta diffondendo un’epidemia devastante che colpisce solo gli adulti. Si tratta di un virus del linguaggio, scritto e orale, per cui l’esposizione a esso è altamente tossica, fa avvizzire i corpi e porta lentamente alla morte.
I vettori sani della malattia sono i bambini – “essenzialmente, portatori di suoni così terribili che, legame di parentela o meno, c’era da sperare di non rivederli mai più” –, che parlando mettono a rischio il mondo dei grandi, distrugge comunità e famiglie intere. Come quella di Sam e Claire, i due giovani protagonisti del romanzo, che inevitabilmente finiscono per essere contagiati dalle parole della loro figlia Esther.
Cosa fare dunque quando il virus ti entra in casa, quando la fonte della malattia è la persona a cui hai dato vita, che hai cresciuto e con cui condividi ogni attimo? Le parole di Esther sono letteralmente infuocate, consumano i corpi dei genitori; Sam e Claire provano a resistere sperimentando rimedi casalinghi, cure palliative che li conducono però all’amara decisione: per salvarsi, per sopravvivere, è necessario scappare, abbandonare Esther, isolarsi da lei.
La partenza non è semplice, però. Claire viene prelevata misteriosamente e Sam si ritrova da solo a intraprendere un percorso a tinte fosche che lo porta a scoprire delle possibili cure contro la nocività del linguaggio. La storia assume per certi versi i tratti della spy story, Sam sembra deciso a voler trovare una cura da poter utilizzare solo per salvare sé stesso e la propria famiglia.
Il romanzo scorre lentamente nelle prime due parti, intreccia elementi distopici e fantascientifici con una sotto-trama di carattere religioso; la scrittura di Ben Marcus tuttavia è molto riflessiva, forse dovuta anche a una relazione osmotica fra contenuto e forma che porta l’autore a pesare bene ogni singola parola, a fissare con cautela ogni immagine e ogni riflessione. Passo dopo passo però la narrazione si fa più incalzante. Il libro merita la lettura non tanto per il ricorso alla tecnica della narrazione distopica – sempre intrigante – quanto per le questioni che solleva: il fatto che siano i bambini a veicolare il contagio nasconde sullo sfondo un contrasto generazionale, un rapporto conflittuale fra genitori e figli che viene qui rovesciato: cosa succede quando sono i genitori a essere costretti a scappare dalle eccessive pressioni dei figli? Si è disposti ad amare lo stesso le proprie creature, nonostante l’urgenza di una scelta fra vita e morte?
E poi, si può continuare a comunicare senza un veicolo materiale? Che forma hanno i nostri pensieri senza qualcosa che li verbalizza e li esterna? La sovraesposizione al linguaggio, agli input provenienti da qualsiasi canale comunicativo ci porterà all’atrofizzazione? Le riflessioni sull’uso eccessivo dei dispositivi digitali spesso pongono l’attenzione sulla progressiva perdita di manualità nella scrittura; saremo sempre in grado di scrivere ed esprimere in modo chiaro i nostri pensieri? O finiremo per vivere in un mondo di automi, dove il linguaggio non sarà più necessario e ci osserveremo negli occhi l’un l’altro, simulando una comunicazione che senza un veicolo espressivo chiaro finisce inevitabilmente con il fallimento?
“Senza un modo per dire le cose, non c’era motivo di pensarle. I nostri visi, senza l’esercizio del linguaggio, si erano atrofizzati in maschere molli, porcine. Alcuni di noi probabilmente non parlavano da mesi, o anche di più.”
L’alfabeto di fuoco, fra distopia, fantascienza e verosimiglianza, è dunque un libro che, nonostante l’uso di una tecnica forse abusata oggi, tuttavia mette sul tavolo questioni che ci toccano nel presente. Immagina un futuro forse non troppo lontano ma ripropone con forza l’attenzione al linguaggio e l’importanza di esso. Perché le parole sono lo strumento di cura più potente che abbiamo, e non c’è medicina migliore per sanare le ferite se non quelle di un dialogo che non sia infuocato ma all’insegna del reciproco ascolto.
L'alfabeto di fuoco
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