L’esausto
- Autore: Gilles Deleuze
- Genere: Filosofia e Sociologia
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2015
“L’esausto” (titolo in lingua originale: “L’Épuisé”) è stato pubblicato nel 1992 da Gilles Deleuze (1925-1995) a commento di quattro pièces scritte, realizzate e dirette da Samuel Beckett per la televisione tedesca tra il 1975 e il 1982.
Le quattro pièces televisive (Quad, Ghost Trio, ...but the clouds..., Night and Dreams) vengono lette dal filosofo francese con un’attenzione particolare non solo agli interpreti, ma soprattutto allo spazio scenico, ai movimenti, ai silenzi e alle connessioni sonore, alle luci, all’evocazione di immagini, all’estenuazione di ogni possibilità narrativa.
“Molte sono le affinità dell’opera di Beckett con il balletto moderno: la perdita di ogni privilegio della statura verticale; i corpi agglutinati per reggersi in piedi; uno spazio qualunque invece di estensioni qualificate; la storia o narrazione sostituita da un “gestus”, come logica delle posture e delle posizioni; la ricerca di un minimalismo; la danza che invade la camminata e i suoi accidenti, la conquista di dissonanze gestuali...”
Il movimento dei corpi, nel teatro e quindi anche nei lavori televisivi di Beckett, viene depotenzializzato per diventare movimento nel mondo dello spirito:
“Non si possono esaurire le gioie, i movimenti e le acrobazie della vita dello spirito se il corpo non resta immobile, raggomitolato, seduto, cupo, esausto”
E cosa significa l’esausto, per Deleuze?
“L’esausto è molto più dello stanco...Lo stanco ha esaurito solo la messa in atto, mentre l’esausto esaurisce tutto il possibile...Solo l’esausto può esaurire il possibile, perché ha rinunciato a qualsiasi bisogno, preferenza, scopo o significato”
Personaggi esausti, quelli beckettiani, fisiologicamente sfiniti, disinteressati al reale, decrepiti, abulici, falliti: immobilizzati in posture di attesa, rattrappiti, chini. Seduti.
La posizione seduta è quella che meglio definisce l’esausto, incapace di alzarsi o di distendersi, inabilitato a esprimersi. Nel non-linguaggio di Beckett, Deleuze individua tre gradi di esternazione: lingua I (lingua dei nomi: disgiuntiva, spezzata, enumerativa), lingua II (lingua delle voci: fluida, ondulata, combinata, confusa), lingua III (lingua delle immagini: visiva, pura, incontaminata, fantastica, libera da ogni condizionamento verbale). Soprattutto quest’ultima si adatta al mezzo televisivo, è in grado di spaziare dissipandosi, possiede una “forsennata energia” che oltrepassa i limiti del contenuto:
“L’immagine finisce subito e si disperde, perché è lei stessa strumento della fine. Cattura tutto il possibile per farlo saltare in aria...L’immagine è un soffio, un fiato, ma spirante, in via d’estinzione. L’immagine è quel che si spegne, si consuma, è una caduta.”
Beckett e Deleuze
“pensatori radicali e profondi artisti, capaci non tanto di dar corpo al pensiero, quanto di dare pensiero al corpo”
secondo la prefatrice del saggio Ginevra Bompiani, si incontrano qui nella volontà di analizzare l’avvicinarsi della fine, l’esaurimento della potenza, il momento penultimo che precede la morte.
Penultimi sono sempre i personaggi beckettiani, penultima è la fase della vita di Deleuze, malata e costretta alla sedia, al momento di questa scrittura.
Nella postfazione di Giorgio Agamben, l’esausto fa dell’inoperosità la cifra del suo vivere, e nello stare seduto esaurisce ogni possibile azione, rifiutando a qualsiasi possibilità di poter essere messa in atto:
“nel gesto del vivente, il vivibile non diventa mai vissuto, ma resta vivibile nell’atto stesso di vivere”
L'esausto
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