“La Vadda de Stignane” e altri canti popolari di San Marco in Lamis
- Autore: Grazia Galante
- Genere: Musica
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2020
Trent’anni saranno mai pochi? Tre decenni di studio, tanti ne ha spesi la docente e ricercatrice instancabile di folklore locale Grazia Galante, originaria di San Marco in Lamis, paese arrampicato sul Gargano, alle pendici del promontorio pugliese che guardano la pianura di Foggia, il Tavoliere di Capitanata. Sono duecento le cantate vernacolari nella nuova edizione de “La Vadda de Stignane” e altri canti popolari di San Marco in Lamis (novembre 2020, 384 pagine), pubblicato da Andrea Pacilli Editore di Manfredonia (Foggia), con la trascrizione musicale degli spartiti a cura del maestro Michelangelo Martino, un cd accluso prodotto da AMP Studio del musicista Ciro Iannacone e i disegni di Giuseppe Ciavarella, che ha accompagnato anche la prima edizione, nel 2015, per l’editore barese Levante.
Quel volume raccoglieva i canti d’amore e le storie cantate e, ancora prima, la prof.ssa Galante aveva proposto nel 2001 quelli religiosi, in un saggio sulla religiosità popolare nel suo paese; nel 2016 si è occupata di canti di gioco, in un altro libro dedicato ai passatempi di una volta sul Gargano. Un ampio lavoro di recupero della memoria folk, con la collaborazione motivata dei compaesani, qualcuno emigrato altrove, come lei a Torino, in avvio della sua carriera d’insegnante nelle medie.
L’autrice tiene a precisare di avere voluto inserire questa volta anche canti per così dire “sfusi”, non classificabili, e ci sono pure le voci dei banditori, i richiami degli ambulanti, i lamenti funebri e gli antichi strumenti musicali, tipici del Sud: li castagnole (le nacchere), lu tammurre (il tamburello), la zzicchetebbù (il napoletano putipù), la sunagghiera (o’ scetavaiasse), lu fische e lu fiasche e strumenti a fiato come il piffero e l’ocarina, accanto al leggendario e sconosciuto al centro-nord triccheballacche. Accompagnavano il canto popolare in tutto il Mezzogiorno.
La Vadda è il canto sammarchese per elezione, una nenia triste del bracciante lontano da casa e sta per valle, di Stignano, località dove sorge un noto convento francescano.
È il caso di spiegare perché questo lavoro non abbia un interesse limitato al territorio foggiano: può assumere un significato generale, ben oltre la valle. Sono canti che evocano tempi andati, tradizioni popolari, società soprattutto contadine, ma che se vogliamo esprimono nel vernacolo sammarchese una saggezza antica universale, un’allegria e a volte una satira sfacciata, che si ritrovano altrove ed esprimono in versioni dialettali diverse la cultura affine di una comunità che condivide lo stesso luogo e modo di vivere, ragionare, provvedere alla famiglia e al futuro dei propri cari.
Ad aprire la ripartizione scelta da Grazia Galante sono i canti da ballo. E non si ballava anche nelle aie delle della pianura padana dopo la mietitura, come nelle masserie garganiche dopo la trebbiatura o la pigiatura del vino? Qui tarantelle, lassù altri ritmi e tonalità. Non ci si sposava in ogni parte d’Italia, con i concertini e i gruppi musicali ad allietare le feste?
Ci sono poi i canti comici e satirici, che esprimono una grassa e spiritosa diffidenza nei confronti di soggetti poco inclini a rispettare rigorosamente la pratica di regole comuni, sociali e religiose. Non c’erano forse dalla Sicilia alla Val d’Aosta e il Friuli, passando per il Lazio e la Romagna, mamme che mettevano le figlie in guardia dalle mani lunghe degli uomini?
Lo stesso si potrebbe dire di tutte le altre sezioni. Si leggono le pagine della Galante, si ascoltano i canti sammarchesi nel cd allegato e si pensa che dovunque si pativa sotto padrone e si accompagnava cantando il lavoro: i braccianti del Tavoliere pativano come i boscaioli del Trentino, le donne di Capitanata piegate a raccogliere i pomodori nei campi come le mondine con le gambe nude affondate nelle risaie padane. Si andava a soffrire le pene dell’immigrazione dalla provincia di Foggia come dal Veneto e se ne cantavano i dolori, senza tacere però della fortuna delle “mugghiere de’ mericane”, che ricevevano le rimesse dai mariti all’estero.
E i canti politici non li scandivano tutti, dappertutto, come antenati degli slogan? Così quelli calendariali (natalizi, carnevaleschi…), al pari di quelli religiosi. E che dire dei soldati? Il peso del servizio di leva, la nostalgia per l’amata, li provavano i coscritti del Nord, del Centro, del Sud e delle isole. Le rime di “O’ surdato nnammurato” in dialetto napoletano venivano interpretate allo stesso modo negli ottomila vernacoli italiani, uno per ogni comune. Quella canzone riuscì ad esprimere un sentimento unificante durante la Grande Guerra che coinvolse in una grande prova collettiva l’intero Paese.
Una curiosità sono senza dubbio “li canzone alla mmersa”, i canti al rovescio, filastrocche nelle quali il popolo accostava concetti, oggetti, cose e animali in evidente antitesi l’uno rispetto all’altro, per ricavare dalla contrapposizione le ragioni per lasciarsi andare all’ilarità e al divertimento, magari rozzo e infantile. Un esempio?
“Mi alzo di mattina, all’ora del Vespro […] Salgo sulla quercia a raccogliere zucchine […] Se andiamo a rubare, il cieco lo mettiamo a spiare e il sordo ad ascoltare”.
Sfogliando qua e là, è disarmante il testamento del povero che lascia ai figli un cappello al quale mancano falde e calotta e scarpe alle quali manca tutto. E si apprende di una specie di Halloween dei primordi: prima del 2 novembre, i giovani sammarchesi giravano di casa in casa di notte, cantando in suffragio delle anime dei morti e ricevendo dolci, cibo e altro modesto ben di dio.
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