La danzatrice stanca è una poesia che Eugenio Montale dedicò a un’icona della danza internazionale: Carla Fracci, definita dal New York Times come la “prima ballerina assoluta”.
Il poeta la scrisse nel 1969, quando ancora non era stato insignito del Premio Nobel per la Letteratura e lavorava come critico letterario e musicale per il “Corriere della Sera” nella sezione del “Corriere di informazione”. All’epoca Montale, proprio per motivi professionali, era un assiduo frequentatore del Teatro “La Scala” di Milano, sera dopo sera assisteva agli spettacoli e li recensiva. Le sue recensioni, contenute nella rubrica Prima alla Scala, fecero storia, superando il confine sottile che divide il giornalismo dalla prosa letteraria, e avevano un’indiscussa protagonista.
Il poeta-giornalista rimase folgorato dal talento di Carla Fracci, che divenne sua musa: quando lei dovette abbandonare le scene per un breve periodo a causa della maternità, il poeta le dedicò un componimento contenuto nella raccolta Diario del ’71 e del ’72.
Nei versi Montale parla della “rifioritura di una convalescente” - singolare la visione della maternità vissuta come una malattia, poi vedremo perché - e si augura che Carla possa tornare presto sul palcoscenico, perché il mondo della danza sembra morto, appassito, senza di lei. L’augurio del poeta alla ballerina è che lei possa presto “rimettere le ali”, con una metafora Montale incarna la presenza di Carla in bilico tra mondo terrestre e monod celeste: la danza la trasfigura portandola in una dimensione inaccessibile ai comuni mortali, ed è proprio lì, sotto i riflettori del palco, che la “danzatrice stanca” spicca metaforicamente il volo e diventa “musa”.
Non era, tuttavia, una musa disincarnata: il poeta e l’étoile, nella vita di tutti i giorni, erano amici. Delle belle foto d’epoca in bianco e nero ritraggono Carla Fracci ed Eugenio Montale in vacanza insieme a Forte dei Marmi. Lei indossa un lungo abito bianco e ha un fiore tra i capelli: un sorriso spensierato la illumina di una luce diafana, mentre sorregge Montale con un braccio. Il grande poeta sembra eclissato dal bagliore di lei, indossa una camicia a righe a maniche corte, da vacanziere, nel colore più brunito delle braccia si coglie l’abbronzatura che il bianco e nero sbiadisce. Montale ha un’espressione indolente, come se volesse sfuggire all’obiettivo e lasciare al centro lei, Carla, con la sua luce radiosa e l’aspetto leggiadro di folgorante gioventù.
Nella poesia descrive la ballerina come una rosa in fioritura, un fiore sul punto di sbocciare e divenire “meraviglia”.
Scopriamo testo e analisi de La ballerina stanca.
“La danzatrice stanca” di Eugenio Montale: testo
Torna a fiorir la rosa
che pur dianzi languia…
Dianzi? Vuol dire dapprima, poco fa.
e quando mai può dirsi per stagioni
che s’incastrano l’una nell’altra, amorfe?
Ma si parla della rifioritura
d’una convalescente, di una guancia
meno pallente ove non sia muffito
l’aggettivo, del più vivido accendersi
dell’occhio, anzi del guardo.
È questo il solo fiore che rimane
con qualche metro d’un tuo dulcamara.
A te bastano i piedi sulla bilancia
per misurare i pochi milligrammi
che i già defunti turni stagionali
non seppero sottrarti. Poi potrai
rimettere le ali non più nubecola
celeste ma terrestre e non è detto
che il cielo se ne accorga basta che uno
stupisca che il tuo fiore si rincarna
si meraviglia. Non è di tutti i giorni
in questi nivei défilés di morte.
“La danzatrice stanca” di Eugenio Montale: analisi
Montale, da fine conoscitore di opere teatrali e drammaturgiche, intesse la poesia dedicata alla ballerina di riferimenti al mondo della danza e dello spettacolo lirico. Paragona Carla Fracci a una rosa sul punto di fiorire, dopo che era stata un poco appassita: la maternità di Carla viene descritta come una convalescenza, dalla quale ora l’étoile della Scala sta per rimettersi. Le sue guance riprendono colore, come i petali della rosa, il suo sguardo si accende di una nuova luce.
Con un autentico coup de théâtre Montale cita il dottor Dulcamara, un personaggio dell’ Elisir d’amore di Gaetano Donizetti (1832) su libretto di Felice Romani. Nell’opera di Donizetti il dottor Dulcamara è un finto medico-ciarlatano che vende al contadino Nemorino il fantomatico “elisir d’amore”. Nella poesia la ballerina è la stessa artefice del proprio elisir d’amore, come una maga compie da sé il proprio sortilegio, vive del suo stesso incantesimo. Montale suggerisce che le basta salire sulla bilancia per comprendere di essere di nuovo in forma e pronta a ritornare sui palcoscenici. Allora “rimetterà le ali” - in questa metafora il poeta racchiude tutta la leggiadria della danza e l’essenza eterea dei movimenti della ballerina. Calcando il palcoscenico Carla Fracci sembra portare il cielo in terra, incarnare uno spirito angelico che visita per un attimo i mortali. Danzando la ballerina diventa spirito e nuvola, e non è detto che il cielo non se ne renda conto. Richiamando gli elementi terrestri e celesti Eugenio Montale sembra ribadire l’idea della danza come disciplina astratta, in bilico tra mondo umano e mondo divino: i ballerini custodiscono una leggerezza sovrumana, una poesia nei movimenti che pare ignorare la forza di gravità e il peso dell’essere. Emerge qui la vicinanza alla dimensione metafisica cara al poeta: è come se la ballerina fosse la sola capace di individuare il varco (il varco è qui?) e di librarsi in un possibile altrove. Ricorda Esterina, l’equorea creatura di Falsetto, che spicca il suo audace volo in un tuffo e gli spettatori si trovano a guardare impotenti ed esterrefatti, consapevoli di appartenere alla “razza di chi rimane a terra”. La ballerina ha molti punti in comune con la tuffatrice di Montale: entrambe sono colte nel pieno rigoglio della loro giovinezza, ritratte sulla soglia di un illimitato futuro, pronte a spiccare il volo.
Nel finale Carla Fracci torna a essere paragonata a una rosa in fioritura: il suo ritorno sulle scene è il suo autentico sbocciare. Non manca la nota tragica, drammatica, tipica dell’ultimo Montale: i balletti, senza la presenza di Carla, sembrano essere diventati dei cortei funebri, sfilate di morte.
“La danzatrice stanca” di Eugenio Montale: commento
Quando Montale scrisse la poesia La danzatrice stanca, nel 1969, Carla Fracci aveva appena avuto il suo primo figlio dal marito Giuseppe “Beppe” Menegatti. Lo stesso poeta avrebbe partecipato al battesimo del piccolo Francesco, il primo gennaio del 1970.
Una foto tenera raffigura Montale accanto a Carla mentre lei tiene in braccio il bambino di pochi mesi avvolto nelle fasce. Nella poesia l’autore elogiava il talento artistico - quasi sovrumano - della ballerina, ma anche la sua giovinezza e il suo essere madre: lei era la rosa appena sbocciata, che avrebbe stupito tutti con il suo ammaliante profumo. Non era frequente che una ballerina avesse dei figli all’epoca, soprattutto negli anni d’oro della carriera, la maternità poteva essere vista come un incidente che guastava il fisico perfetto dell’étoile. Non fu così per Carla Fracci; e Montale lo sapeva, già presentiva che sarebbe tornata a danzare ancora più leggiadra di prima, per questo il poeta paragona la maternità a una convalescenza, perché per la ballerina significava un periodo di lontananza dalle scene.
L’amicizia con Carla Fracci ci rivela anche un lato nascosto, forse poco conosciuto di Eugenio Montale: il poeta ligure era infatti un baritono e un grande amante dell’opera. Durante la famosa vacanza in Toscana con Carla, in una tappa nei pressi di Certaldo, si mise a cantare in francese in un cimitero; la ballerina, che mai si tirava indietro, decise di esibirsi con lui. La coppia Montale-Fracci era invincibile, sapeva trasformare ogni momento in uno spettacolo: poesia e danza, in fondo, sono molto più simili di quanto si pensi, entrambe sono dotate di una qualità tipicamente astratta che certo non appartiene alla “razza di chi rimane a terra”.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “La danzatrice stanca”: la poesia di Eugenio Montale per Carla Fracci
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