La difesa antigas nella Grande Guerra
- Autore: Giorgio Seccia
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2018
Gas, la morte arriva sibilando sul campo di battaglia: un libro di storia della guerra 1914-18 che può essere considerato un autentico e raro manuale tecnico sugli aggressivi chimici, tra le armi più terribili usate largamente in quel conflitto. “La difesa antigas nella Grande Guerra”, in prima edizione ad aprile 2018 nella collana Memorie di ferro della casa editrice bassanese Itinera Progetti (160 pagine, 146 fotografie in bianconero, 18 euro), è uno studio accurato di Giorgio Seccia, brigadiere generale della riserva, socio della Società Italiana di Storia Militare e già autore di ricerche sulle vicende belliche e sull’uso dei gas sui fronti europei, per sbloccare la stasi della guerra di trincea.
È per cercare di raggiungere questo risultato che venne adottata l’insidia “respiratoria”, che evolverà presto anche nella versione vescicante dell’yprite. Ed è stata è tedesca la prima paternità dell’arma e delle tecniche, tanto nelle ricerche per l’offesa che nella sperimentazione di maschere antigas, di protezioni del corpo, collettive e per gli animali.
Fin dal 1887, un docente universitario di chimica a Monaco, il prof. Adolf von Baeyer (che sarà premio Nobel nel 1905, ma per altri studi) aveva avanzato la tesi di un impiego militare di sostanze lacrimogene per colpire avversari arroccati su posizioni forti e difficilmente conquistabili con armi tradizionali.
L’idea di von Baeyer rimase in sospeso, finché poco più di due decenni dopo un altro scienziato chimico si fece carico di portarla a compimento. Il prof. Fritz Jacob Haber (altro Nobel, nel 1919, per la sintesi dell’ammoniaca), raccolse il presupposto del collega berlinese, adottò il molto più tossico gas cloro, usato nell’industria dei coloranti, applicò la spinta del vento come propulsore e convinse il Comando Supremo dell’esercito del kaiser a sperimentare la nuova arma.
Espulsa da bombole, la sostanza aeriforme avrebbe formato delle nubi, che avrebbero sfruttato una direzione favorevole del vento, avanzando verso il nemico pur restando a contatto del suolo, dal momento che il cloro è più pesante dell’aria. Inoltre, forniva il vantaggio di non persistere sul campo di battaglia, favorendo l’avanzata delle fanterie subito dietro le nubi.
Questo il principio, ma il tecnico sottovalutava l’imprevedibilità dei venti e ne patì personalmente le conseguenze, in occasione della prima prova sul campo. Il 1 aprile 1915, i pionieri del XXVI Corpo d’armata aprirono per la prima volta gli ugelli sul campo d’esercitazione, disperdendo con un forte sibilo una fitta nube giallo-verde e intossicando proprio Haber e un accompagnatore, che si erano spinti troppo vicino per osservare l’andamento dell’esperimento. Il professore rischiò l’asfissia, ma sopravvisse e l’esperienza sgradevole lo indusse a consigliare l’impiego immediato del gas per sorprendere il nemico, ma anche a d insistere sull’esigenza di difendere gli stessi attaccanti da un’arma tossica tanto efficace.
La soluzione adottata venne da un’altra industria, quella mineraria. Apportando limitate modifiche agli apparecchi di respirazione usati nelle miniere, la fabbrica Drager di Lubecca mise a punto maschere protettive costituite da una sacca respiratoria di tela, una cartuccia per la purificazione dell’aria dal gas e un cilindro d’acciaio contenente ossigeno compresso, munito di erogatore. L’insieme era in grado di proteggere le vie respiratorie delle truppe destinate ad avanzare dietro le nubi di cloro.
Alle diciotto del 22 aprile 1915, lo fecero i i fanti del 236° reggimento a Langemark. L’arma innovativa e sconosciuta colse le truppe anglo-francesi del tutto di sorpresa, impreparate, sprovviste di qualsiasi mezzo di difesa.
Divenne da allora abituale osservare soldati che per sopravvivere dovevano indossare “strani e sempre più sofisticati” dispositivi e indumenti, a protezione dal veleno sparso dal vento sul campo di battaglia, un killer silenzioso che asfissiava, accecava, ulcerava.
Morire per una fucilata va ancora, ma morire soffocati come un topo, no!
Il generale Seccia offre una ricostruzione tecnica degli apparecchi individuali e dei sistemi collettivi di difesa (fuoco e calore, ad esempio), con schede di tutte le maschere in uso nei vari eserciti.
I continui perfezionamenti di questi apparati sono un aspetto della Grande Guerra piuttosto trascurato dalla storiografia. Nelle intenzioni dell’autore, lo studio intende colmare questa lacuna, sebbene non in maniera esaustiva, offrendo una descrizione tecnica e una ricostruzione storica delle diverse modalità con cui il problema della difesa antigas venne affrontato dalle forze armate impegnate nel conflitto. Interessanti le numerose immagini, i ragguagli tecnici, le testimonianze dirette e i retroscena. Sull’astuccio di latta che conteneva la protezione di ogni soldato italiano campeggiava una scritta piuttosto sinistra:
Chi lascia la maschera muore.
La difesa antigas nella Grande Guerra. Le maschere antigas, le protezioni per il corpo, le protezioni collettive e per gli animali di tutti gli eserciti
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