Il Babbo Natale cantato da Fabrizio De André parla d’amore, ma non porta con sé i consueti doni. Dietro la barba bianca si nascondono due occhi freddi e duri come spilli: quello sguardo è un avvertimento, preludio della violenza che si consuma nel finale.
La canzone si intitola La leggenda di Natale, ma non fatevi ingannare: De André ci immerge in un’atmosfera fiabesca e surreale che in verità ha molto punti in comune con la nostra attualità. Il canto di Natale del cantautore genovese è la storia di uno stupro, di una violenza sessuale compiuta ai danni di una bambina.
Oggi che la violenza sulle donne è salita agli onori delle cronache diventando un argomento improvvisamente dibattuto e ne viene contestata la frequente “romanticizzazione” da parte dei media, ecco che La leggenda di Natale di Fabrizio De André, scritta nel lontano 1968, appare ancora più lungimirante e si inserisce strettamente nella discussione attuale su femminicidio, educazione sentimentale e retaggi vari di una società patriarcale.
Anche Babbo Natale è un simbolo del patriarcato? Chissà cosa avrebbe risposto De André; quel che è certo è che in questa canzone Faber compie un singolare processo di rovesciamento, viene risemantizzata la nostra narrazione canonica del Natale. La festa dell’infanzia per eccellenza - “il Natale è dei bambini”, si dice - diventa il pretesto per analizzare un caso di pedofilia, lo stupro e le sue conseguenze. Una scelta decisamente in controtendenza, quasi polemica, quella di intitolare La leggenda di Natale una canzone sullo stupro in un panorama infarcito di ritornelli strappalacrime, canti di buon augurio e promesse beneaugurali di pace, serenità, letizia.
Il brano La leggenda di Natale fu scritto da Fabrizio De André con Gian Piero Reverberi, ispirandosi alla canzone Le Père Noel Et La Petite Fille di Georges Brassens. Il cantautore francese si serviva della metafora di Le Père Noel (il nostro Babbo Natale, Ndr) per indicare un uomo adulto, forse anche anziano, ricco, che approfitta della propria posizione sociale e della propria autorità per abusare - non visto e impunito - di una bambina (che in realtà nella canzone di Brassens è una “fanciulla povera”, non ne viene specificata l’età).
De André riprende il tema di Brassens, ma lo fa proprio, trasformando l’immagine serena del Natale nel ricordo indelebile di un trauma, rafforzando l’antitesi tra Babbo Natale (personaggio buono per eccellenza) e la figura oscura, ambigua del pedofilo. Il cantautore genovese si cala nell’esperienza di una donna che ha vissuto il dramma di uno stupro e - viva o morta - ne porta le conseguenze.
La leggenda di Natale di De André, contenuta nell’album Tutti morimmo a stento (1968), può essere analizzata in vari modi e si apre a plurime interpretazioni; ma oggi ci appare più che mai come una chiave di lettura malinconica del nostro presente, per ricordare anche in questo Natale tutte le donne uccise o vittime di violenza. Ciascuna di loro ha una voce nella canzone di Fabrizio De André e leva ancora alto il grido della propria innocenza.
La leggenda di Natale di Fabrizio De André: testo
Parlavi alla luna giocavi coi fiori
Avevi l’età che non porta dolori
E il vento era un mago, la rugiada una dea
Nel bosco incantato di ogni tua idea
Nel bosco incantato di ogni tua ideaE venne l’inverno che uccide il colore
E un Babbo Natale che parlava d’amore
E d’oro e d’argento splendevano i doni
Ma gli occhi eran freddi e non erano buoni
Ma gli occhi eran freddi e non erano buoni
Coprì le tue spalle d’argento e di lana
Di perle e smeraldi intrecciò una collana
E mentre incantata lo stavi a guardare
Dai piedi ai capelli ti volle baciare
Dai piedi ai capelli ti volle baciareE adesso che gli altri ti chiamano dea
Quell’incanto è svanito da ogni tua idea
Ma ancora alla luna vorresti narrare
La storia d’un fiore appassito a Natale
La storia d’un fiore appassito a Natale.
La leggenda di Natale di Fabrizio De André: un commento
De André ci immerge in un’atmosfera fiabesca, incantata, surreale come ben si addice alle favole del Natale. C’è un bosco incantato popolato da creature magiche che simboleggiano l’immaginazione smisurata di una bambina (“avevi l’età che non porta dolori”, Ndr); quest’innocenza però è bruscamente infranta, prima dall’arrivo dell’inverno che spegne la primavera della vita offuscandone i colori (“e venne l’inverno che uccide il colore”, Ndr), poi dal sopraggiungere di un uomo che parla d’amore, ma ha gli occhi freddi e, a guardarli bene, non splendono di bontà.
Il Babbo Natale della fiaba cantata è un inganno, una maschera del Male, più inquietante del lupo che assalì Cappuccetto rosso perché non ha le sembianze di un lupo. Alletta la bambina con i doni d’oro e d’argento e così facendo le ruba l’infanzia, spezzando ogni incanto.
De André ci narra persino l’indicibile con delicatezza, come se stesse cantando una ninnananna: “Dai piedi ai capelli ti volle baciare”, lo stesso espediente poi utilizzato in un’altra ballata dello stesso album Tutti morimmo a stento, dal titolo Girotondo in cui viene edulcorata la narrazione della guerra.
Nella sua Leggenda di Natale, De André adotta il punto di vista della vittima, immaginando la forza devastante del trauma da lei subito. Il ricordo tragico non si cancella, neppure ora che la bambina è cresciuta ed diventata una “Dea”, non si sa se nella sua immaginazione oppure in quella degli altri. Rimane da raccontare non più l’incanto e la magia, ma “la storia di un fiore appassito a Natale”.
La tradizionale narrazione caritatevole del Natale viene qui ribaltata in una controstoria, in una narrazione fiabesca della violenza che tuttavia non perde la sua incisività. La dolcezza dei termini scelti da Faber è un omaggio nei confronti della vittima, come se volesse appianarne il dolore. Anche lei, come Marinella, diventa un fiore, sebbene appassito, un’immagine cruda che si fa portavoce di un punto di non ritorno. Ogni Natale il ricordo della violenza ritorna, incancellabile.
Sfruttando l’annuale cadenza della festività natalizia De André pone l’accento sulla grandezza del trauma, insuperabile, proprio perché si riaffaccia alla memoria con l’intrusività di una ricorrenza fissa.
Ma forse è un’altra immagine il reale punto di forza di questa canzone: Babbo Natale. Per ogni bambino la scoperta della non esistenza di Babbo Natale segna in qualche modo la fine dell’infanzia, una perdita d’innocenza; ne La leggenda di Natale questo processo avviene in maniera ancora più dirompente, tramite il palesarsi di un Babbo Natale cattivo che si fa triste presagio della realtà, spezzando ogni incanto in maniera irreversibile.
Si osservi lo stesso titolo scelto da De André: non “canto di Natale”, ma “leggenda”, un termine in grado di insidiare il significato stesso della festività, come se il Natale non fosse altro che una bella fiaba che appartiene all’infanzia, un’invenzione, una fantasia portata avanti ostentatamente dalla tradizione, che improvvisamente si scontra con un mondo folle dove il confine tra “buoni” e “cattivi” può essere davvero labile. La parola “leggenda” trasporta inoltre il contenuto stesso del brano in una dimensione in bilico tra reale e irreale, invitando l’ascoltatore stesso a collocarlo secondo coscienza.
Sottotraccia scorre la morale: il Male può nascondersi sotto false sembianze e questo è un avvertimento che oggi - mentre raccontiamo senza tregua storie di donne uccise o violentate da uomini che dicevano di amarle - appare più vero che mai.
Nel 1968 poteva apparire originale e persino polemico Fabrizio De André con il suo controverso invito a fare attenzione a Babbo Natale; ora il suo poetico “attenti al lupo” ci mette i brividi, perché scorgiamo la storia vera dietro la “leggenda” evocata nel titolo.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “La leggenda di Natale” di Fabrizio De André: una narrazione fiabesca della violenza sulle donne
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