La metà del letto
- Autore: Matteo Bianchi
- Categoria: Poesia
Matteo Bianchi si rivela sempre più come voce autorevole nel panorama della poesia italiana, nonostante la giovane età. Lo attesta anche questa sua raccolta di un centinaio di liriche La metà del letto , pubblicate a 27 anni (Barbera editore, p. 124, 2015) con presentazione di Anna Maria Carpi e introduzione di Roberto Pazzi.
Bianchi è autorevole non solo per i consensi ricevuti da lettori e critica, ma in quanto riesce a esprimersi attraverso archetipi: sono topos, luogo, spazio interiore, tipi ineliminabili che formano e determinano il nostro apparire e sparire drammaticamente sulla scena del mondo. L’archetipo nel pensiero immaginale antico veniva quasi sempre antropomorfizzato come dio o dea, viveva per allegorie e miti. Oggi non accade quasi mai, ma nei migliori poeti esso riveste la forma di avvenimenti quotidiani, biografici, assunti al rango di paradigmi. Matteo compie questo salto dal contingente all’eterno con facilità, semplicità ed eleganza, toccando il sentimento di cui Kandinsky dice (lo dice riferendosi alla pittura ma la cosa si estende certamente alla poesia, intessuta di immagini):
"Solo il sentimento (mediato dal talento dell’artista) può riconoscere lo spirito che ci porta al regno del domani".
Il regno del domani è la nostra accresciuta consapevolezza.
La raccolta narra di lui, disegna la sua storia ma rappresenta anche i temi universali con i quali tutti ci confrontiamo: il tempo con il suo passo inesorabile, l’amore, la morte, la ricerca dell’altro quindi di sé, la ricerca dell’Altro divino, bisogno di origine e durata.
Intanto già il titolo testimonia in modo originale ciò che Platone afferma 2500 anni fa nel Simposio: siamo esseri monchi, tagliati a metà da Giove irato, perennemente alla ricerca della metà perduta. Lo rimembra anche Pazzi nel suo commento.
Il letto sarà sempre per metà vuoto, nonostante la presenza di un amore nella nostra vita, perché il domani è ignoto e ciò rende la vita, in parte, mutilata:
"Tu sei i miei secondi / e vorresti sentire / “io ci sarò per sempre?” / […] io per sempre non lo so dire / e nemmeno tu. / Noi non lo sappiamo dire / - non perché non l’abbiamo imparato - / proprio perché non lo si impara."
Perfino nell’unione più sentita, quando si condividono i secondi, non possiamo sapere per quanto tempo, conteggiato sull’orologio, accadrà. Siamo impermanenza, siamo ospiti soltanto.
I ricordi legati alla "neve" della prima sezione sono di un candore innocente. Lanciarsi palle di neve ci riporta alla vita come gioco. Nell’infanzia viene accettato il nero contrapposto al bianco, con una sapienza poi scordata.
Poi la morte imprime il suo marchio. La figura della zia Rosa scomparsa è un apice di realismo congiunto a trasfigurazione che fa tremare. Viene ripresa in ospedale ma è legata pure al mistero e alla bellezza delle rose, effimere ma simulacri di perfezione ed eternità:
"Però zia, anche le rose si guastano / prima di perdere la testa: / i contorni si scurivano, / le tue rughe intorno agli occhi / farsi via via più spesse, / fosse pentimento o solitudine".
"Il tuo nome adesso / di seconda fioritura, in maggio, / primavera della tua sepoltura. / la vita ti ha chiamato / per ciò che sei stato".
La morte di un caro amico rimanda, per analogia con Omero, allo strazio di Achille per la morte di Patroclo, ma senza furore di vendetta; il suo canto funebre è l’energia del "mai più", unita alla speranza del ritrovarsi altrove, nel destino che ci accomuna.
Per tutti noi valgono queste righe chiaroveggenti:
"Solo contemplo un altrove, / ma vero, almeno nella finzione".
Aggiunge, il poeta, la necessità di assaporare l’attimo fuggente, con l’immagine delle farfalle:
"Colgono la bellezza, / e l’assaporano sui fiori, / prima che essa divori nell’attesa / lo smalto delle loro ali."
Non si finirebbe di ascoltare Matteo! Diventa intimo e fratello, stabilisce con il lettore un’affinità elettiva. Accoglie nelle sue pagine anche alcune grandi figure del mito e della storia, Eva, Giuda, il Cristo e la Maddalena che comprende nel raccontare:
"Gli lavavo i piedi impolverati e mal ridotti. / […] Lui, considerato da noi il più distante. / Lui, il più radicato alla terra, / ci credeva, scalzo, e sopportava, / smagrito ulivo dal terremoto. / Camminava fino allo stremo".
L’immagine rimanda a una concezione di immanenza. Dio rimane l’assillo essenziale, come nella poesia magnifica in cui il poeta ragazzo viaggiando per studio ha la sensazione di dimenticare e perdere sempre qualcosa, e invece egli sa di perdere continuamente Dio. Ancora una volta una metafora tolta dalla sua piccola vita diventa grande vita: "théos, radice del mio dubbio".
Dio e uomo legati inscindibilmente, come tutti, vivi e morti, siamo legati dall’amore.
Matteo ci racconta di perdite, divorzi, di stazioni e treni in cui si è fissato/perduto parte di lui, di noi. E di Ferrara, di Venezia, i luoghi cornici del suo transitare.
Viene da chiedersi: ma quella metà del letto è vuota per davvero? Non è forse occupata in permanenza dalla poesia? Di cui in apertura dei libro il poeta dice con grazia:
"Poesia è urgenza / di vita proibita che, / con le sue dita affusolate, / va aprendosi in me".
Anche noi veniamo toccati dalle sue dita. E non è certo poco. Il conforto delle parole è esistenzialismo e com-presenza. Anche noi in lui siamo inclusi, siamo nei suoi dilemmi, nei suoi addii, nella speranza di ritrovarsi, immortalati comunque nella memoria che non dimentica. Oggi sappiamo che la memoria e la coscienza sono incastonate nei microtubuli dei neuroni e che, sganciate dal corpo, viaggeranno nel cosmo, dopo il grande volo (modello ORCH-OR, Riduzione Oggettiva Orchestrata, ideato da Roger Penrose e Stuart Hameroff). Questa la mia aggiunta ai versi magnifici di Matteo Bianchi.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: La metà del letto
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