La peste scarlatta
- Autore: Jack London
- Genere: Fantascienza
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Adelphi
Un vecchio e un ragazzo, vestiti di pelli di animali, camminano dentro a una foresta, cacciando conigli e cercando di evitare gli orsi inferociti. A prima vista si direbbe una scena preistorica, se non fosse per “quello che un tempo era il terrapieno della ferrovia”, un particolare che, sin dalle prime righe di questo romanzo, lo colloca in una dimensione di futuro ipotetico, post-apocalittico. Bastano quelle poche parole per farci subito intuire un’umanità, o quello che ne resta, reduce da una catastrofe di qualche tipo, e che adesso sta affrontando la quotidiana lotta per la sopravvivenza.
Pubblicato nel 1912, La peste scarlatta di Jack London (Adelphi, 2009, trad. O. Fatica), più assimilabile a un racconto breve che a un romanzo, è un’opera curiosa quantomeno per la sua evoluzione da distopia a ucronia. La vicenda principale, cioè lo scoppio della peste, è infatti ambientata in un 2012 ipotetico al momento della sua pubblicazione, ma oggi abbondantemente superato, che viene rievocato nel racconto dell’anziano protagonista. Nessuna tecnologia bizzarra, niente macchine spaziali né alieni di nessun tipo: Jack London non era uso a questo tipo di fantasie. La sua fantascienza riguarda piuttosto uno scenario da “day after”, conseguenza di un accadimento del tutto naturale e dell’incapacità dell’uomo di fermarlo o, quantomeno, arginarlo. Uno scenario in cui l’umanità ha perso tutto e deve ricominciare.
Come sempre succede, anche in questa situazione l’esperienza e la saggezza degli anziani vengono trattate con sufficienza e ridicolizzate. Dopo un pasto frugale condito dai soliti maligni scherzi al nonno, i tre nipoti, Edwin, Labbro-Leporino e Hoo-Hoo, si accingono con malcelato fastidio ad ascoltare, una volta di più, il racconto della catastrofe che ha riportato il mondo all’età della pietra. La causa, come oramai sanno a memoria, è stata un morbo sconosciuto, chiamato “Peste scarlatta” dal colore che prendeva la carnagione di chi ne veniva colpito, che in pochissimo tempo portava alla morte, senza che se ne conoscesse il rimedio. Il nonno era allora un docente universitario di ventisette anni, e nel giro di pochi giorni si è ritrovato apparentemente solo al mondo, unico superstite risparmiato dal morbo infernale che ha fatto cadere come mosche tutti i suoi amici, colleghi, conoscenti, chiunque si trovasse intorno a lui. Solo dopo due anni, vagando disperato per un mondo che credeva vuoto, ha ritrovato altri esseri umani: poche, spaurite tribù nelle quali ogni differenza tra classi sociali è stata azzerata, sostituita da un vago ricordo soffocato dalla legge del più forte, che ha fatto sì che donne di sublime talento e intelligenza si siano trovate sopraffatte dalla violenza di rozzi individui che, nel mondo precedente, non avrebbero potuto neppure guardarle.
Il vecchio professore descrive con lacerante lucidità i suoi sentimenti nel vedere svuotarsi la sua Università, quella che “per un secolo e mezzo aveva funzionato senza interruzioni, come una splendida macchina”: è fin troppo evidente il parallelo con la situazione attuale.
Come ripartire da un mondo nel quale i tre nipoti sono insofferenti agli insegnamenti e nel quale vige la prepotenza come unica regola? Quale base per un’umanità futura possono fornire questi ragazzi che stanno già ricreando “i tre tipi eterni: il prete, il soldato e il re”? Per l’umanità, sembra dirci Jack London, non c’è speranza: è destinata alla ripetizione ciclica degli stessi cliché e degli stessi, eterni errori.
Molto interessante e dettagliata l’analisi di Ottavio Fatica, che chiude l’edizione Adelphi, e che ci fornisce anche qualche notizia interessante sul caso di Ishi, un indiano trovato nascosto in un mattatoio nel 1911, impossibilitato a essere inserito nella Società e quindi relegato al ruolo di “attrazione”, ospitato in un museo antropologico. Il protagonista, ci dice Fatica, è un Ishi al contrario: un pesce fuor d’acqua in un mondo che non è più il suo, ma che, invece di compiere il salto in avanti, l’ha compiuto all’indietro. Fermiamoci un attimo a riflettere e a chiederci se, pur non tornando a vestirci di pelli di animali, quel salto all’indietro non l’abbiamo compiuto anche noi.
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