È l’estate del 1857, splendida, luminosa; siamo quasi ai primi di luglio, il mese di giugno sta per finire. Un giovane Giosuè Carducci, appena ventitreenne, si gode lo splendore del sole sulle colline toscane di San Miniato al Tedesco.
In questo testo autobiografico il poeta rievoca un momento fulgido della sua giovinezza che viene a coincidere - metaforicamente - in una chiave di lettura simbolica con il coro delle cicale. Il sottofondo armonico dell’estate è dato da una sinfonia assordante e, al contempo, melodiosa:
Come strillavano le cicale in quell’estate della dolce Toscana!
Con un’efficace sinestesia Carducci ricollega il suono all’attimo: il canto delle cicale ci riconduce così in quell’istante preciso della giovinezza, con la stessa efficacia letteraria di una madeleine proustiana. La sintesi tra il canto delle cicale e la giovinezza del poeta è data da una circostanza perfetta, espressa in questi termini:
Esse cantano quanto dura la perfezione del loro essere, cioè finché amano.
Le cicale non hanno corpo, non hanno volto, sono ridotte a puro canto: sono essenza del suono. L’autore prosegue difendendo le cicale dagli oltraggi dei poeti latini, che ne fecero simbolo di ozio ed emblema dei perdigiorno. Virgilio definiva il loro canto querulo, mentre gli antichi Greci addirittura le veneravano come “figlie della Terra” ed emblema di nobiltà. Socrate, come si racconta nel Fedro di Platone, racconta che un tempo le cicale erano uomini che, pur di cantare, dimenticavano ogni altra cosa sino a morirne: da qui la metamorfosi voluta dalle Muse.
Carducci invece non le divinizza, si accontenta di ammirarle, ma non si risparmia una nota misogina che oggi ci fa rabbrividire:
Cantano i maschi, le femmine no; le donne sono sempre senza poesia.
Da questo punto in poi Carducci, nella sua prosa, si abbandona a una lunga descrizione bucolica che spesso è stata erroneamente proposta in forma di poesia. Si tratta, invece, di un appunto diaristico, in cui il poeta rievoca un periodo della sua gioventù: nell’estate del 1857 infatti Carducci, fresco di laurea alla Scuola Normale Superiore, insegnava come professore di retorica in un ginnasio nella campagna pisana presso il Liceo di San Miniato.
Il testo che riportiamo è una commemorazione nostalgica, in perfetto stile carducciano, di quel periodo. Il canto delle cicale in Carducci diventa un’epifania di giovinezza: il paesaggio stesso si trasfigura, diventa sonoro, l’aria si fa sinfonia e promessa in una sintesi formidabile di lirismo e narrativa.
Il passo di seguito riportato rappresenta uno dei migliori esempi della prosa memorialistica carducciana. La lunga digressione sulle cicale in una giornata estiva diventa un autoritratto del poeta stesso.
“Le cicale” di Giosuè Carducci: il testo
Cominciano agli ultimi di giugno, nelle splendide mattinate; cominciano ad accordare in lirica monotonia le voci argute e squillanti.
Prima una, due, tre, quattro, da altrettanti alberi; poi dieci, venti, cento, mille, non si sa di dove, pazze di sole; poi tutto un gran coro che aumenta d’intonazione e di intensità col calore e col luglio, e canta, canta, canta, sui capi, d’attorno, ai piedi dei mietitori.
Finisce la mietitura, ma non il coro. Nelle fiere solitudini sul solleone, pare che tutta la pianura canti, e tutti i monti cantino, e tutti i boschi cantino…
pare che essa la terra dalla perenne gioventù del suo seno espanda in un inno immenso il giubilo de’ suoi sempre nuovi amori co’l sole.
“Le cicale” di Giosuè Carducci: un commento al testo
“L’estate canta, canta e canta” nel calore di luglio. L’estate di Carducci è tutta racchiusa nel coro sinfonico delle cicale, in una prosa che si fa preludio alle migliori liriche dedicate dal poeta alla terra natale, la Maremma toscana (come Traversando la Maremma toscana e Davanti San Guido), in cui è contenuto il rimpianto invincibile per la propria giovinezza perduta. In questo testo raggiunge anche la sua massima espressione il panismo carducciano: la Natura si fa espressione di uno stato d’animo, traduce un sentimento.
Nell’identificazione con l’elemento naturale - nello specifico con le cicale - rivive il mito pagano e, con esso, il desiderio di essere trasformato in cicala per sperimentare appieno quel vitalismo vibrante, quella pienezza di vita. Le cicale cantano solo d’estate, nella bella stagione del sole, non conoscono il gelo dell’inverno né la malinconia delle nebbie: nella loro evocazione il poeta traduce un’eterna giovinezza, lo splendore di un’invincibile estate, dove non esiste vecchiaia né morte.
Come si può evincere dalla conclusione del testo, in cui Giosuè Carducci riporta la narrazione al presente in cui si trova immerso:
E anch’io sono oramai una cicala di settembre: non rimpiango né richiamo né invidio; soltanto tra le brezze d’autunno ricordo gli ardori del luglio 1857 e le estati della dolce Toscana.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Le cicale” di Giosuè Carducci: un appunto d’estate dal diario del poeta
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