Le donne nella Grande Guerra
- Autore: Bruna Mozzi
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2018
In copertina, una fotografia le mostra in abbigliamento casalingo un po’ retrò dei primi del ‘900 e tuttavia non sono in casa, ma in uno stabilimento, a produrre bossoli d’artiglieria da 75 mm. Il libro è “Le donne nella Grande Guerra” (128 pagine, 8,90 euro) della padovana Bruna Mozzi, attenta ricercatrice di memorialistica bellica. La casa editrice Biblioteca dei Leoni di Castelfranco Veneto l’ha pubblicato a maggio 2018, nella collana La Grande Guerra eroi e battaglie. Accostamento più che giusto: eroine e combattenti anche loro, nonostante le funzioni ausiliarie e le vesti ingombranti.
Si pensi alle portatrici carniche italiane (oltre 1200, 229 della sola Paularo in Carnia, 223 di Paluzza). Sfidavano sole, vento, ogni condizione atmosferica, con grandi gerle sulle spalle, il fazzoletto in testa e il grembiule sulla veste fino alle caviglie, per salire alle quote dove scaricavano il contenuto destinato ai soldati. Ognuna trasportava 30-40 chili. Come muli, ma più affidabili. Ogni viaggio (tre-quattro ore di ascesa ripida, per una media di mille metri di dislivello) veniva compensato con 1 lira e 50, l’equivalente di nemmeno 4 euro. Sfidavano anche le cannonate e il tiro dei fucilieri. La più nota tra loro, Maria Plozner Mentil di Timau, venne colpita da un cecchino il 15 febbraio 1916 e spirò il giorno successivo, nell’ospedale di Paluzza. Aveva 32 anni e lasciava quattro bambini in tenera età. Il presidente Scalfaro le ha concesso motu proprio la medaglia d’oro al valor militare nel 1997.
Quello della Biblioteca dei Leoni e di Bruna Mozzi non è il primo libro sull’argomento e non il più articolato, ma è indubbiamente valido per il corredo fotografico che offre. Sono numerose le foto e le immagini color seppia a commento di un testo agile ed efficacemente divulgativo.
L’autrice ha mano felice nell’esposizione, sviluppata con sensibilità femminile. Ricorda innanzitutto la condizione delle donne nei primi del XX Secolo: mentre facevano ingresso nello scenario “produttivo” bellico, la parola emancipazione non le sfiorava minimamente. Dipendevano totalmente dall’uomo, come nei secoli precedenti.
Le nubili erano soggette all’autorità paterna, le sposate a quella maritale e non ci limitiamo alla situazione in Italia e nemmeno solo alle classi popolari meno abbienti, sebbene il ceto sociale comportasse qualche differenza parziale. Bruna Mozzi fa notare che le alto borghesi facevano le mogli, le madri e sì occupavano dell’educazione dei figli e della gestione della casa, senza svolgere un lavoro esterno. Invece, prima del matrimonio, le piccolo borghesi attendevano spesso ad attività tipicamente femminili: insegnanti o bambinaie. E alle donne della classe operaia, oltre ai lavori in casa e alla cura dei figli, toccava proporsi come servette delle famiglie più ricche o lavoranti sottopagate saltuarie nella produzione manuale, sartine, commesse, eccetera. Diritti in genere inesistenti, quello di voto neanche a parlarne, sebbene nel mondo anglosassone si intravvedessero i primi movimenti delle suffragette.
La Grande Guerra impattò contro questa stratificazione consolidata, tante si impegnarono fuori casa per propria scelta e con convinzione, molte altre dovettero farlo per necessità, c’era da sostituire gli uomini mandati al fronte. Si pensi alla sola agricoltura italiana: sui 4,8 milioni di maschi addetti al lavoro nei campi, oltre la metà, 2,6 milioni, vennero arruolati. Ai restanti si potevano aggiungere solo i bambini e ragazzi tra 10 e 18 anni (1,2 milioni). Le donne abili oltre i 10 anni erano invece 6,2 milioni, inevitabile l’occupazione femminile di spazi prima riservati agli uomini e allo stesso tempo lo straordinario incremento di fatica e responsabilità per le donne, sulle cui spalle restavano la famiglia, i figli, gli anziani.
Lavoratrici nei campi, operaie negli stabilimenti produttivi, addette ai servizi e comunque restavano massaie. Ma qualcuna cercò addirittura di andare in guerra. Luigia Ciappi di Firenze e Gioconda Sirelli di Milano tentarono di arrivare al fronte vestite da soldati, ma vennero fermate. Una compagnia di volontari in Ucraina accettò alcune donne. Una crocerossina britannica, per certe vicende legate alla ritirata delle truppe inglesi nei Balcani, si unì per sicurezza ad un reggimento serbo, ne divenne ufficiale e risultò la prima inglese reclutata come militare.
La donna in uniforme e fucile più famosa è stata l’austriaca Vittoria Savs. Era cresciuta ad Arco di Trento, poi a Bolzano, orfana di madre ad appena quattro anni e per restare accanto al padre soldato, si arruolò nell’esercito austro-ungarico fingendosi uomo. Operò eroicamente nelle Dolomiti, contro gli italiani. Solo un piccolo numero di commilitoni conosceva la verità.
L’autrice si occupa ovviamente anche delle donne in fabbrica, in un capitolo di quasi venti pagine, oltre che delle crocerossine. E ci sono anche le belle spie, come Mata Hari e le fucilate per eccesso di zelo: l’inglese Edit Cavell, giustiziata dai tedeschi in Belgio per aver favorito la fuga di numerosi soldati dell’Intesa prigionieri.
Dopo la guerra, però, per le donne tutto torno come prima.
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