Lo sguardo di Odo
- Autore: Yann Martel
- Genere: Fantasy
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Frassinelli
- Anno di pubblicazione: 2017
“Vita di Pi”
Elaborare il lutto, è sempre doloroso, a volte spiazzante. Tomás, ad esempio, lo fa in modo stravagante, ha preso a camminare soltanto all’indietro, con tutti gli inconvenienti che questo comporta. Il dottor Lozora, invece, continua a conversare su tutto e perfino a discutere con la moglie, la vede vicina a sè, sebbene sia morta, caduta da un ponte o spinta giù. Quanto al parlamentare Peter Tovy, ha adottato una scimmia.
La morte è sempre presente nel nuovo titolo di Yann Martel, “Lo sguardo di Odo” (Frassinelli, 2017, pp. 280, euro 20,00), ma non è affatto un romanzo tetro. Lo scrittore canadese è versato in un genere letterario, il realismo magico, che trova pure espressione nell’arte figurativa e nel quale un contesto realistico viene attraversato da contenuti visionari, paranormali o anche sovrannaturali. Entrano in modo surreale nel racconto e si manifestano senza che nessuno dei protagonisti tradisca un cenno di stupore o di sorpresa. Stravaganze per niente sottolineate, assolutamente coerenti con la narrazione.
Tra i grandi esponenti del realismo magico, che non sono pochi, si distinguono Kafka, Marquez, Borges e gli italiani Flaiano, Rodari, Sgorlon.
Yann Martel, figlio di diplomatici franco-canadesi, è nato in Spagna, a Salamanca, nel 1963 ed ha cambiato residenza in diversi continenti. Ora vive in Canada ed è l’autore di “Vita di Pi”, romanzo del 2001 tradotto in trenta lingue e dal quale il regista Oscar Ang Lee ha tratto un film in 3D.
Una delle caratteristiche dei libri di Martel sono gli animali al centro della scena. In questo nuovo lavoro si tratta in particolare di scimmie, mentre nel primo il giovane Pi si trasferiva avventurosamente dall’India al Canada per vendere lo zoo di famiglia e dopo un naufragio stabiliva uno stretto rapporto con una tigre.
“Lo sguardo di Odo” è distinto in tre parti, nettamente differenti, nonostante siano interconnesse. Distano l’una dall’altra qualche decennio e risultano cadenzate stilisticamente in modo altrettanto diverso. La prima parte è più lenta e fissa i temi. La seconda è una specie di sogno surreale nello studio di un patologo addetto alle autopsie. La terza dà un senso a tutto l’impianto narrativo e corre ad un ritmo nettamente accelerato.
Fase uno: Portogallo, Lisbona, 1905. Tomàs è nipote di un uomo molto ricco ma è figlio di un uomo non agiato. Al di là di ogni barriera di classe e di convenienza, il giovane è fortemente attratto dalla domestica a servizio in casa dello zio. Hanno una relazione, ma lei non acconsente a sposarlo. Resterebbero inesorabilmente indigenti e Dora sa bene cosa significa essere in miseria. Hanno però un figlio, Gaspàr, amato dal buon nonno, che è il solo ad accettare la situazione.
In una settimana, Tomàs perde tutti e tre. Un morbo improvviso, inarrestabile. Il piccolo di cinque anni muore il lunedì, la donna giovedì e domenica spira il padre, fratello povero di un uomo ricco.
Scosso dal dolore delle perdite, il giovane decide di camminare solo all’indietro, per opporre le spalle al mondo e a dio. Lo zio rivede la sua posizione e tra sensi di colpa e di ravvedimento prende la decisione di asseconda un’altra mania di Tomàs, spinto da un impulso verso le Alte Montagne portoghesi, alla ricerca di un crocifisso molto particolare. È custodito in una chiesa, sebbene non si sappia con esattezza quale, tra le non poche della zona. La traccia è nel diario di Padre Ulisse, redatto nel XVII secolo a Sao Tomè, possedimento coloniale in Guinea, sulle rotte del traffico di schiavi dall’Africa alle Americhe. Quel Cristo in croce ha qualcosa di stupefacente da rivelare.
Fase due: Braganza, Alto Douro, 1939. Eusebio Lozora è un medico, specialista in anatomia patologica. La sua signora lo raggiunge ogni notte nello studio, come d’abitudine, chiacchierando incessantemente di religione e di romanzi di Agatha Christie, una passione comune. Fatto sta che la moglie è deceduta, precipitando da un ponte. Sempre nello studio, irrompe una donna di Tuizero, un paese sulle Alte Montagne. Né lei né il marito accettano la morte dell’unico figlioletto di cinque anni. Ha portato con sé, in una valigia, il corpo del coniuge, defunto da tre giorni. Si fa suturare dentro il cadavere dal patologo. La salma già contiene all’interno uno scimpanzè e un cucciolo d’orso.
Fase tre: Canada, 1984. Un politico, sconvolto dalla perdita della moglie, raggiunge il luogo d’origine della famiglia, la cittadina di Tuizero, in Portogallo. Vive in compagnia di una scimmia, Odo. Uomo e primate saranno il tramite che collegherà il presente al passato.
Sorprende con quanta delicatezza Yann Martel riesca a sviluppare e faccia accettare come normali situazioni che con mano meno leggera si mostrerebbero decisamente macabre, raccapriccianti, perfino stomachevoli.
Quanto al racconto, occorre sapere che molto prima di Darwin un prete, lucido nella sua follia, si è imbattuto in un’isola estrema in una verità che può cambiare la storia.
Non siamo angeli caduti ma primati evoluti.
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La morte, il senso di perdita, lo spaesamento e lo sfasamento di chi resta, la ricerca di uno scopo ulteriore per andare avanti e riconciliarsi con se stessi, se dovessi condensare il senso de “Lo sguardo di Odo” (Frassinelli, 2017) di Yann Martel, celebre autore di “Vita di Pi”, in poche righe, probabilmente sarebbero queste.
La storia si divide in tre microstorie, intervallate da anni e con protagonisti vari personaggi.
Si comincia con Tomàs, all’inizio del 900, vedovo da poco e orfano in pochissimo tempo di tutti i suoi affetti più cari: a distanza di pochi giorni, costui perde la compagna, il figlio piccolo e il padre. Rimasto solo, con l’unico sostegno e appoggio del ricco zio, si immerge nella lettura di un vecchio diario di un missionario in Africa, Padre Ulisses, che parla di un crocifisso molto particolare, conservato tra le Alte Montagne del Portogallo e ne intraprende la ricerca.
Una manciata di anni dopo, circa una trentina, un patologo, riceve la visita di una donna con una valigia, che proviene sempre dalle Alte Montagne del Portogallo e che gli fa una richiesta alquanto strana.
In Canada, infine, negli anni ottanta, un senatore, vedovo, ritrova il senso della vita grazie a un primate, l’Odo del titolo, il cui sguardo, sereno, intenso e profondo, insegna più di mille parole.
Senza dire di più, questo romanzo fantasioso, che si inserisce in quel misticismo magico che contraddistingue il suo autore, lascia perplessi; ci si aspetta la stessa atmosfera magica e poetica del precedente lavoro ma non ingrana, non decolla, non convince.
Il senso di perdita, tranne che nelle battute finali, non diventa poesia, non assurge a catartico conforto, ma rimane spesso brutale, squallido, macabro.
Probabilmente ogni lettore ci vedrà qualcosa di diverso, a qualcuno potrà piacere, ad altri farà storcere il naso, senz’altro lo stile divide, ma non cosi tanto da farne parlare, non al punto da crearne discussioni. Come dire, lascia perplessi, ma con un’inquietudine piatta, e non ribelle.
Sinceramente Martel avrebbe potuto fare e dare di più, almeno per me, e, visti i precedenti, in qualche modo DELUDE.