Lo zoo di Vetro
- Autore: Tennessee Williams
- Genere: Arte, Teatro e Spettacolo
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Einaudi
Tennessee Williams lo scoprii con "Un tram che si chiama desiderio" e mi piacque subito, all’istante. Ho amato anche la trasposizione cinematografica con Marlon Brando, che interpretò Stanley Kowalsky anche per la prima teatrale a Broadway.
Autore sopraffino, capace di raccontare le inquietudini e la profondità della natura umana, attraverso personaggi un po’ autobiografici, nei quali però qualunque lettore non fatica a trovare qualcosa di proprio.
“Lo zoo di vetro” (USA, 1944), scritto tre anni prima, è un racconto di solitudine, fuga dalla realtà, egoismo, malinconia del passato, amore, dannate gabbie. Quattro i personaggi, anzi tre direi, perché uno è strumentale al racconto degli altri tre.
Tom, che è anche narratore del dramma e protagonista di un monologo finale meraviglioso, sua sorella Laura e sua madre Amanda. Poi Jim appunto, collega di lavoro di Tom, che Tennessee Williams utilizza come strumento, anche in contrapposizione, per descrivere e rappresentare Tom e il suo rapporto col mondo e con la famiglia, Laura e il suo mondo di vetro e Amanda e le sue nostalgie.
C’è anche un quinto personaggio, che non c’è ma c’è, perché se ne avverte la presenza, il padre di Tom, che abbandonò la famiglia molti anni prima.
Laura fugge dalla realtà stando praticamente segregata in casa a collezionare animaletti di vetro, lo zoo di vetro. Tom bevendo e passando la maggior parte del tempo al cinema, Amanda vive nei ricordi di quando era giovane e bella. Tom si sente chiuso in una gabbia, vorrebbe scappare, come fece suo padre ma ha anche un forte affetto e senso di protezione verso una sorella così fragile.
Bello, bello, intenso, intenso.
Nel monologo finale sfilano tutti i sentimenti e le contradizioni di Tom che, dopo un litigio con la madre, scappa e segue le orme del padre, si libera della gabbia della famiglia ma solo apparentemente:
“Tom: «Non andai sulla luna, molto più lontano andai, perché è il tempo la distanza più lunga tra due punti.
Poco tempo dopo mi licenziarono per aver scritto una poesia su una scatola di scarpe. Lasciai Saint Louis. Per l’ultima volta discesi i gradini di questa scaletta e seguii, da allora, le orme di mio padre, cercando di riprendere in moto quel che era perduto in spazio.
Viaggia e viaggia. Le città sfioravano come foglie morte, foglie dai colori accesi, ma avulse dal ramo.
Avrei desiderato fermarmi, ma qualcosa mi perseguitava.
Mi prendeva all’improvviso, mi coglieva a tradimento. Forse un motivo familiare. O forse il riflesso di un pezzo di vetro.
Una sera, magari cammino per strada, in una città straniera, senza compagni. Passo davanti alla vetrina illuminata di un negozio di profumi. La vetrina è piena di vetri colorati, di sottili bottigliette multicolore, quasi un arcobaleno in frantumi.
Ecco, a un tratto, mia sorella mi tocca sulla spalla.
Mi volto e la guardo dentro gli occhi.
Oh Laura, Laura, ho fatto di tutto per staccarmi da te, ma sono più fedele di quanto volessi.
Accendo una sigaretta, attraverso la strada, mi butto in un cinema o in un bar, tracanno un bicchierino, parlo al primo che trovo. Tutto! purché si spengano le tue candele!
perché oggi il mondo è rischiarato dai lampi!
Spegni le tue candele, Laura. E, addio!»”
Lo zoo di vetro
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