Maledetta guerra
- Autore: Lorenzo Del Boca
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Piemme
- Anno di pubblicazione: 2015
Se l’Italia rivendica Trieste e il trentino, perché non anche il Canton Ticino? Il capo di Stato Maggiore dell’esercito italiano prima di Cadorna aveva pensato all’invasione della Svizzera, per andare a dare manforte sul Reno all’allora alleata Germania, poco più di cento anni fa. Questo il grande pubblico non lo sapeva, infatti è uno dei contenuti più interessanti del saggio storico di Lorenzo Del Boca “Maledetta guerra”, appena edito da Piemme, 314 pagine, 17,50 euro.
Il tenente generale Alberto Pollio era fedele alla Triplice Alleanza: un austriacante secondo l’opinione pubblica qualificata dell’epoca, un ostacolo per quanti progettavano in segreto il cambio di campo a favore della Triplice Intesa, quello che poi si sarebbe verificato prima del nostro ingresso nella Grande Guerra, nel maggio 1915, al fianco degli anglofrancesi e contro gli austrotedeschi, partner nei quattro decenni precedenti. Sta di fatto che il 1 luglio 1914 Pollio è stato rinvenuto cadavere nella sua stanza dell’Hotel Turin Palace di Torino, due giorni dopo l’attentato di Sarajevo che avrebbe scatenato di lì a poco la prima guerra mondiale.
Si parlò di malessere per il caldo – in verità moderato e tutt’altro che insopportabile – di imbarazzo gastrico, di una combinazione delle due cose. Venne archiviata come naturale una morte che tutto sembrava meno che normale.
Il sessantaduenne generale casertano cadde dunque nel suo letto - ma senza le donnine di cui si volle far circolare la voce – mentre si apprestava a mettere il grosso dell’esercito italiano a disposizione dello sforzo bellico tedesco. Peraltro, si sarebbe trattato di un ben modesto contributo, assicura Del Boca, viste le imperfettissime condizioni in cui versava l’organismo militare, a detta dell’allora primo ministro Antonio Salandra. E non per scarsezza di risorse economiche, visto che i finanziamenti della Difesa assorbivano il 28% del bilancio dello Stato, contro il 23% dell’Austria, ma per la pessima e indolente organizzazione.
Il caso Pollio è solo uno dei temi affrontati dal giornalista, saggista e storico piemontese nei diciotto capitoli monografici che coprono tutta la guerra, rivelando particolari inediti. Sintomatico il riproporsi di un italianissimo difetto: l’improvvisazione, ad ogni livello e in ogni periodo. Si pensi che il 24 maggio 1915, dichiarata la guerra all’Austria, si sarebbe voluta condurre un’ energica irruzione verso Trieste, Lubiana e addirittura Vienna. Ma le avanzate non si fanno senza mezzi. Il nostro esercito avrebbe dovuto disporre di 3500 autocarri e 500 automobili, ma niente di tutto questo: la II Armata al confine carnico aveva solo un’auto, quella del comandante.
Sui 700 chilometri di fronte italiano, gli austriaci poterono schierare per due settimane solo 44 compagnie, appena 25mila fucili e 100 cannoni, ma gli italiani avanzarono con circospezione. I nostri generali vedevano agguati e aggiramenti dovunque. La penetrazione avvenne a rilento, quasi volessero dare l’assalto non prima che i rinforzi nemici munissero saldamente le posizioni, cosa che avvenne, per eccesso di cautela da una parte e per azzardo calcolato e vincente dall’altra. Da qui, tre anni di nostre spallate e di perdite, pressoché sulle stesse linee, a parte la ritirata di Caporetto. Non era il numero dei soldati a mancare e nemmeno il coraggio, a difettare era l’intelligenza dei comandanti superiori.
Ci si batteva allo stremo, sempre all’attacco su un terreno che favoriva la difesa e sempre con troppa acqua dal cielo e poca nelle borracce. Ma questo valeva per attaccanti e difensori, italiani e austriaci, del resto c’era un elemento che appaiava i sacrifici di tutti, amici e nemici: la trincea. Neanche i gironi dell’inferno potevano sembrare più crudeli. Catacomba a cielo aperto, riarsa dal caldo o al contrario battuta da venti gelidi, invasa dal fango e dalla neve.
E si combatteva anche in alta montagna, a quote elevatissime, nell’ossigeno rarefatto dell’Adamello, a 3000 metri di altitudine, fino ai 3402 del Corno di Cavento o addirittura ai 3678 di Punta San Matteo, sull’Ortles, tra Lombardia e Trentino. Vi si morì fino a tre settimane dalla fine della guerra. È duro affermare che furono perdite e dolore inutili, una specie di cinico sport militare, perché da quella parte né gli uni né gli altri sarebbero andati lontano. Ci sarebbero sempre state altre cime a sbarrare il passo, altre pareti di roccia, altri canaloni impraticabili esposti al tiro. Un esercizio sportivo terribilmente costoso, pagato in vite umane. Vite giovani.
Maledetta guerra: Le bugie, i misfatti, gli inganni che mandarono a morire i nostri nonni
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