Il sentiero per il paradiso. Storia di Francis Ford Coppola
- Autore: Sam Wasson
- Genere: Storie vere
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Jimenez edizioni
- Anno di pubblicazione: 2024
Francis Ford Coppola è solito giocare col fuoco del disastro economico. E parimenti sognare, rivisitare generi, medialità e transmedialità, abissi interiori, trip visivi, depressione/esaltazione maniacali e quant’altro partecipi inevitabilmente alla sua fama di autore ispirato e temerario, fra i più significativi che la storia del cinema ricordi. In fin dei conti: lo si può imputare di tutto, tranne che di essere genio mancante di coraggio. Ogni singola pagina di Il sentiero per il paradiso. Storia di Francis Ford Coppola di Sam Wasson (Jimenez, 2024, traduzione di Daniela Liucci) lo comprova.
Il volume è muscolare, 480 pagine, ma filano via dritte come birra ghiacciata per la gola. Una biografia minuziosa, si diceva. C’è dentro Coppola, uomo-artista-visionario senza soluzione di continuità. Nel senso che dove finisce l’uno comincia l’altro e l’altro ancora, in un avvicendarsi narrativo di piani ravvicinati, flash back, istantanee, racconti crudeli, storia, mito, psicoanalisi, nevrosi, film di cassetta e altri capolavori. La tormentata lavorazione di Apocalypse now inaugura il fluviale biopic di Sam Wasson, e non a caso: più ancora che la saga del Padrino, e della Palma d’oro La conversazione, Apocalypse now è puro paradigma e filo rosso coppoliano. Soltanto un’analisi convenzionale può restituirlo alla storia come film sulla guerra del Vietnam e basta: la traslazione coppoliana del Cuore di tenebra di Joseph Conrad connota Apocalypse now della fisionomia aggiunta del film dell’orrore psicologico: una discesa negli inferi dell’animo umano. Nei luoghi oscuri dove le antinomie ontologiche (bene/male, ragiona/follia, regola/ribellione) collidono e convergono, si coniugano e confliggono al tempo stesso. Nel film, le lacerazioni intrapsichiche del colonnello Kurtz (Marlon Brando) e del capitano Willard (Martin Sheen) lo rivelano in modo assoluto. Detta in altro modo: Apocalipse now è un precipitare progressivo nel baratro della follia – dentro e fuori una guerra folle, durante e collateralmente alle folli, interminabili riprese, osteggiate da continui sforamenti di budget e intemperie – di cui Coppola è Caronte e Demiurgo insieme.
Dalle note di lavorazione della moglie Eleonore, riprese alle pagine 49 e 50 dall’autore:
C’è come un delirio di potenza di fronte alla perdita di ogni cosa [...] come l’eccitazione della guerra quando uno uccide e corre il rischio di essere ucciso. Francis ha deciso di correre il rischio maggiore nel fare il film come lo sta facendo. Sente allo stesso tempo il fascino di essere il creatore/regista e la paura di un completo fallimento, un vago e remoto frammento di Kurtz. Spaventava anche lei.
E qualche pagina dopo, sulla scorta delle parole dell’impresario Bill Grahan:
’Ero preoccupato più che altro per la stabilità mentale di Francis’ ha detto. Apocalypse now era un demone, pensava Graham, c’era qualcosa dentro Francis, qualcosa di orribile che non capiva. Apocalypse now era il resoconto del suo esorcismo.
Assediato da debiti, condizioni climatiche estreme e riprese che lo sono altrettanto, nel paradiso perduto della Filippine, se Francis Ford Coppola sperimenta la sua apocalisse personale, tecnici e attori non sono da meno. Eclatante il crollo emotivo di Martin Sheen, irretito dal regista in persona, fra le maglie di una psicopatologia che lo porta al ricovero. Che Coppola sia capace di generare al tempo stesso inferni e paradisi non è una grande rivelazione. Nel senso che ciò fa parte del suo essere autore - e persona - senza mezzi termini. Del suo essere genio capace di ispirarsi a un mediocre romanzo sulla mafia (Il padrino di Mario Puzo) e farne un’epopea criminale-esistenziale che assimili e travalichi i topoi del gangster movie. Vincere la Palma d’Oro con un film incentrato sull’ossessione paranoica per la privacy di un investigatore privato (La conversazione). Lo specifico coppoliano insomma non conosce vie di mezzo (si veda anche l’ultimo Megalopolis), e probabilmente nemmeno di scampo: se fallisce fallisce in grande, se vince, vince alla grande.
Per via delle imprese impossibili, ma anche per vizi e virtù che l’hanno contrassegnata, la storia di Francis Ford Coppola è una storia di tenore quasi mitologico. Ed è altresì la storia di un clan familiare - quasi una factory: padre musicista, moglie produttrice, sceneggiatrice, regista a sua volta, figlia attrice - inscindibile dalle sue attività cinematografiche. Ma la storia più indicativa di Francis Ford Coppola è legata giocoforza ad Apocalypse Now da cui siamo partiti. A ciò che il regista e la sua troupe hanno trovato di sconvolgente nella giungla filippina, e dentro sé stessi: 230 giorni affacciati sul baratro del crollo fisico e mentale. Una storia confinante con la leggenda e mai raccontata fino in fondo; Sam Wasson la racconta invece sin nei minimi dettagli, in questo libro che ha la profondità del romanzo interiore e la presa emotiva del romanzo di avventura al contempo.
L’ultima parola spetta dunque all’autore: il riassunto per antitesi biografiche-caratteriali, attraverso cui restituisce il campionario luci-ombre del regista, rende l’idea della felicità di scrittura cui è dotato:
In questa vita ha fatto e rifatto film, ha vinto e perso Oscar, ha vinto e perso milioni, ha messo al mondo figli e avuto nipoti e un pronipote, ha perso un figlio. Ha costruito templi, ha bombardato templi, ha coltivato uva, si è coltivato la barba, ha pigiato l’uva, si è rasato la barba. Ha scritto e scartato stesure, ha completato e successivamente rimontato film, ha combattuto contro gli Studiosa, ha lottato contro la corrente dei tempi, ha vinto battaglie, ha perso battaglie, ha perso la testa. Ha costruito un impero cinematografico, un impero alberghiero, ha creato l’inferno, ha cerato il paradiso, ha perso il paradiso e ha ripreso a sognare.
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