Mom & Angkar’s Kid
- Autore: Chhay Sophal
- Genere: Storie vere
- Categoria: Narrativa Straniera
- Anno di pubblicazione: 2012
“Touk Min Cham Nench, Dork Chenh Min Khart” (Keeping you is not gain, losing you is no loss.” (Pag. 57)
Il 17 aprile del 1975 un milione di persone furono evacuate da Phnom Penh alla campagna in un sol giorno.
Dei tanti eccidi della storia quello cambogiano fu uno dei più raccapriccianti, perché i morti furono migliaia, in una nazione con pochi abitanti e perché colpì un popolo pacifico e tranquillo.
Tutta la popolazione fu danneggiata, chi non morì fu deportato in campi di riabilitazione o imprigionato o torturato. La violenza dei Khmer rossi si abbatté su gli esponenti del vecchio regime, militari, funzionari. Ci fu una caccia agli studenti, intellettuali, atleti, attori, artisti ma anche piccoli borghesi, commercianti artigiani. Dietro la deportazione rimase una città abbandonata, le infrastrutture inservibili, le pagode abbandonate, le scuole vuote. Addirittura divenne famosa una banale e pacifica scuola elementare della periferia: la sventurata prigione S21. Nel suo interno furono detenute centinaia di persone, torturate e obbligate a ripudiare le loro origini. Solo sette prigionieri riuscirono a sopravvivere.
Tutto fu abolito, soltanto l’Angkar, il Partito Comunista di Kampuchea, doveva esistere; la struttura sociale ed economica com’era conosciuta dalle persone fu demolita: mercato e denaro furono aboliti, ma soprattutto fu soppressa la famiglia, base della società agricola e buddista cambogiana.
Mom & Angkar’s Kid (Chhay Sophal, Phnom Penh, giugno 2012) è un libro scritto da Chhay Sophal. Racconta la sua triste avventura durante il terrore di Pol Pot, il tempo della rieducazione, del lavaggio del cervello e di quando, ancora ragazzino, fu costretto a ripudiare, a odiare, a offendere i propri genitori.
Un racconto autobiografico drammatico, vissuto con un sentimento profondo, senza nascondere gli errori e le conseguenze cattive della propria adolescenza.
Chhay Sophal, il giorno della caduta di Phnom Pehn, aveva dodici anni. Un adolescente in base agli standard della Cambogia.
La drammaticità del racconto lascia senza respiro. Tutto inizia quel 17 aprile, i genitori sparirono e fu abbandonato con i fratellini piccoli. I soldati urlavano con i megafoni, tutti dovevano lasciare la capitale perché sarebbe stata bombardata dagli americani. Dopo le bugie ci furono le minacce, sparatorie, uccisioni. I bambini tentano di raggiungere la colonna in fuga e iniziano un viaggio verso il paese della madre. Una donna partorisce per strada, durante il cammino sono tanti i cadaveri abbandonati senza pietà nei fossati lungo il tragitto.
Le camicie rosse stabilirono una suddivisione spietata della popolazione. Idearono tre gruppi di persone.
Gli appartenenti alla prima avevano un pieno privilegio, una notevole influenza; poiché vissero nei villaggi e senza compromettersi con il regime di Lon Nol.
Il secondo era costituito da persone con le caratteristiche della prima categoria, con una sola differenza: aver avuto familiari o parenti legati al passato governo. Sarebbero potuti entrare nel primo gruppo se avessero dimostrato di essere utili all’Angkar attraverso il duro lavoro, e capaci di stroncare rapporti con i parenti coinvolti.
La terza categoria, la gente del 17 aprile, erano i deportati dalla capitale o dalle altre città. Persone compromesse con il passato governo e perciò considerati dei nemici.
Per individuare le tre categorie cercavano di carpire informazioni dai figli sui mestieri e l’attività dei genitori. Ricercavano, oltre gli ex-soldati e i loro familiari, tutta la classe media: insegnati, impiegati, statali. Dopo cinque angosciosi giorni di viaggio i bambini raggiungono il campo di riabilitazione.
Il libro ci racconta numerosi episodi dei campi, lasciandoci senza fiato per l’obbrobrio dei dettagli. Sono soprattutto i particolari a turbarci, quei piccoli fabbisogni della nostra esistenza quotidiana, insignificanti e banali nella quotidianità, ma la cui sparizione distrugge le nostre fondamenta umane.
È la precisione delle piccolezze della vita nel campo, peggiorato dalla fomentazione all’odio nei confronti della famiglia, ad agitare le nostre emozioni.
“I was lucker than some other children whose parents were killed due to themselves: but I never blame them.” (Pag. i)
Sì, Chhay Sophal fu fortunato rispetto ad altri coetanei. Egli non uccise il padre o la madre come fecero alcuni ragazzini. Potremmo pensare a qualcosa di più tragico?
Accadde perché i bambini furono formati con nuovi principi.
Nei campi dovevano studiare delle ideologie false, paradossali, ribaltando i principi tradizionali e culturali, in cui generazioni di cambogiani avevano vissuto. Oltre studiare erano obbligati, soprattutto e fortemente, a lavorare. Dovevano guadagnarsi il cibo di ogni giorno. Gli fu rubata l’infanzia, il diritto al gioco: “… not permitted to do anything recreationally.” (Pag. v)
Il plagio, l’istupidimento, l’edificazione di fraudolenti ideali e soprattutto lo smantellamento delle abitudini, modificò la concezione di vita.
Non potevano chiamare più papa e mamma i propri genitori:
“Not only the teacher but also the village chief and deputy chief as well as the villagers living there for a long time banned us from using the words “Mom and Dad” but told us to use “Father and Mother” instead. (Pag. 24)
Soprattutto era instillata la paura, il terrore, l’angoscia. I sentimenti di spavento e ansia provocavano nei ragazzini il desiderio di sopravvivenza.
Erano minacciati, terrificanti frasi lasciavano impresso lo sgomento nella loro fragile personalità:
“Angkar had many eyes like a pineapple …” (Pag. 48)
“Angkar also encouraging us to dare to smash our parents if they did something wrong for Angkar.” (Pag. 48)
Il libro aggiunge un valore rispetto ai molti sull’argomento. Tenta una motivazione storica, perché gli eventi del ragazzino nel campo sono accompagnati o da interviste o dagli interrogatori ai processi ai gerarchi di Pol Pot. Unire la realtà dell’autore, con le giustificazioni degli uomini di potere dell’Anghar, dà un valore culturale al libro e gli aggiunge quella dicotomia assurda e quasi grottesca, se non fosse per i morti e le sofferenze.
Kaing Guek Eav detto Duch fu ideatore delle prigioni della Cambogia tra cui la famosa S21. Durante il processo a suo carico affermò:
“Mother and father liberate and give birth only one person; the revolutionary Angkar liberates people for the whole empire. So mother and father have no role; Angkar is the parent.” (Pag. 50)
L’odio alla famiglia deriva da questo concetto, l’Angkar sfamava i bambini, perciò essi potevano vivere solo grazie al partito, non hai genitori, i quali avevano procreato solo per una banale soddisfazione sessuale.
Nei campi oltre la destrutturazione della famiglia, da sostituire con il partito, c’era molto di più.
C’era una contrapposizione, ancora esistente nei paesi asiatici, fra cittadini e contadini. Conferma Nuon Chea (al secondo posto nelle leve del comando dopo Pol Pot):
“The farmers do the farming under the sunlight, rain and wind but the city people do not. That is why we needed them to live equally without capitalism, feudalism, and oppression class.” (Pag. 28)
Sull’argomento inoltre Khieu Saphan (capo di stato della Cambogia fino al 1979) aggiunge: “… the rural areas were the important foundations for the revolution but the cities were where the heads of the rulling class and the imperialists remained.” (Pag. 34)
Della classe media cittadina, intellettuale, culturalmente crescente, l’Angkar non ne ha bisogno, vogliono riconvertirla.
Se non esiste classe media, non esiste neppure il denaro. In alcune scene del libro ci sono degli sfollati con grosse quantità di banconote, trasportate segretamente con cura, diventavano sconvolti quando scoprivano di avere solo carta senza valore.
Suong Sikoeun (portavoce dei Khmer rossi)
“ … closed down markets and abandoned money with no salaries for all workers was that the revolution wanted to abolish capitalists and feudalists so that the new regime had neither bosses nor servants and neither the rich nor the poor – everyone was meant to be living equally.” (Pag. 22)
Nel frattempo la povera detenzione di Chhay Sophal nel campo continuava tristemente.
Oltre la rieducazione forzata, c’erano le condizioni igieniche pessime, la scarsa e cattiva qualità del cibo, e la forzata e schiavizzata attività lavorativa.
I ragazzi erano feriti, pieni di pulci e ricoperti da vesciche.
Alcune forzature erano tragicomiche. Ad esempio, l’autore racconta che erano obbligati a pisciare e defecare in posti specifici per produrre l’unico fertilizzante disponibile: gli escrementi degli uomini. Per non perdere nulla, durante il lavoro nei campi, avevano fabbricato un bastone di bambù al cui interno dovevano mingere in caso di urgenza e poi gettare il contenuto in grandi recipienti.
Tanti ragazzi morivano, a causa degli stenti, delle malattie, dell’insufficienza di cibo. Si sfamavano di tutto: scarafaggi, lucertole, scorpioni, cavallette, insetti, vermi degli alberi, nientemeno nei rifiuti mangiavano prodotti alimentari pieni di uova di mosche. L’assurdo è che si nutrivano di queste schifezze di nascosto, perché era vietato. Se catturavano una qualsiasi porcheria, questa era un bene della collettività. Al riguardo c’è una dichiarazione di Nuon Chea sulla collettivizzazione della società: “… people could work and eat together so that the collectives needed fewer cooks and gained moro labour forces.” (Pag. 45)
Se avevano abrogato la famiglia, andò peggio all’amore: “Love was cut off, except at Angkar’s decision. Men and women who had secret love were considered the immoral persons …”(Pag. 82). I matrimoni erano decisi dal partito, secondo principi politici. Di nuovo Ducth dà la spiegazione: “one and one must be two, not one and one is zero.” (Pag. 84)
In un paese profondamente religioso, l’atteggiamento dell’Angkar contro i religiosi furono vissuti come dei traumi familiari. I monasteri furono distrutti, monaci e suore ebbero la sorte simile ai seguaci del vecchio regime, costretti alla rieducazione violenta. Perfino la chiesa cattolica di Notre Dame, costruita come copia di quella di Saigon, fu demolita. Identico destino fu riservato alle moschee. La giustificazione di Nuon Cheng nella sua testimonianza:
“During the time of Buddha, there had no monastery either. …monasteries and monks’ residents are not important … The Buddhism meaning is in the heart …” (Pag. 68)
Il 7 gennaio del 1979 l’esercito vietnamita entrò a Phnom Penh e il governo dei Khmer rossi fu abbattuto. Era la fine di un incubo, uno dei peggiori massacri della storia.
I ragazzi fuggirono dai campi di concentramento cercando di tornare a casa, di riunirsi con le famiglie.
Chhay Sophal descrive il suo sentimento dell’epoca: “My life looked like a dog without master.” (Pag. 93)
La sua giovinezza era stata recisa provocando un segno indelebile. Ricostruirla non sarebbe stato facile.
Anche oggi la Cambogia ha un marchio indimenticabile, doloroso e difficile.
Il reddito pro-capite è di USD 2.600 annuo, al 187° posto nella classifica mondiale. (fonte CIA Central Intelligence Agency).
Le condizioni umane sono visibili. Intere famiglie con bambini piccoli dormono nelle strade della capitale in condizioni igieniche schifose.
La popolazione è però di grande conforto umano, di eterna gentilezza e ospitalità. Ci vorranno anni, la dedizione e intelligenza delle nuove generazioni, a superare il trauma collettivo.
Il libro di Chhay Sophal è un frammento, una riflessione aperta per le generazioni future, le quali, come a esorcizzare la ferita interna, utilizzano la prigione S21 e i campi principalmente per trasportare turisti anziché tracciare la propria storia.
Nel libro c’è pure l’aspetto umano: il dettaglio della vita cambogiana dell’epoca, il ritratto di un ragazzino gentile, dolce, affettuoso con la famiglia, trasformato un essere brutale e spregevole. Il cambiamento del carattere sarà disumano. Eppure si ritiene fortunato, altri bambini nella follia del momento hanno ucciso padre e madre, la loro sofferenza avrà mai una soluzione?
D’altronde nella testimonianza di Dutch c’è una verità sulla prevista sorte finale dei cambogiani: “In the whole of Cambodia, all are enemies, except me and Brother Pol Pot.” (Pag. 65)
Tutti i cambogiani erano destinati alla morte eccetto due!
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