Morire di pace
- Autore: Amoreno Martellini
- Genere: Politica ed economia
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: il Mulino
- Anno di pubblicazione: 2017
Novembre non sembra un buon mese per gli italiani, tanto meno per le nostre missioni di pace all’estero. L’11 novembre 1961, 42 anni e un giorno prima dell’attentato di Nassiriya, si consumò in Congo una ingiustificata strage di nostri militari, impegnati nella prima delle operazioni di pacificazione di conflitti locali condotta dall’ONU. Amoreno Martellini, storico dell’Università di Urbino, ricostruisce il massacro di tredici aviatori italiani in Africa, nel saggio “Morire di pace. L’eccidio di Kindu nell’Italia del «miracolo»”, per la collana Percorsi, delle edizioni bolognesi il Mulino (giugno 2017, pp. 250 pagine, euro 21,00).
La comunicazione ufficiale venne data contemporaneamente nelle due Camere del Parlamento italiano, poco dopo le 16,30 del 16 novembre. Il ministro della Difesa Andreotti in Senato e a Montecitorio il presidente del Consiglio Fanfani confermarono la morte a Kindu degli aviatori italiani aggrediti da militari congolesi ammutinati. Tredici ufficiali e sottufficiali della 46a Aerobrigata dell’Aeronautica Militare italiana trucidati “furiosamente” mentre erano impegnati in un compito umanitario per conto delle Nazioni Unite, una missione peraltro non formalizzata dal Parlamento, ma gestita all’interno del Governo.
Ora dopo ora, un’Italia sempre più addolorata cominciò a conoscere la storia delle vittime e scoprì di partecipare da un anno e mezzo con uomini e mezzi a una missione di pace, finalizzata a contenere le violenze della guerra civile divampata in Congo subito dopo la proclamazione dell’indipendenza dal Belgio colonialista.
L’11 novembre 1961, dalla base di Léopoldville due aerei italiani avevano raggiunto l’aeroporto di Kindu, controllato da caschi blu malesi, per trasportare materiale destinato alle forze ONU nella regione del Kivu. I tredici uomini d’equipaggio, disarmati, erano nella mensa ufficiali quando vi avevano fatto irruzione centinaia di uomini di una guarnigione dell’esercito congolese ammutinata. Per due giorni si ebbero poche e confuse notizie. L’ambasciata italiana comunicò che i “prigionieri” erano stati
“malmenati in modo disumano”
ma un capo militare degli insorti aveva assicurato che sarebbero stati rilasciati presto, pur respingendo la richiesta di poterli incontrare, adducendo
“l’impossibilità di garantire l’incolumità dei visitatori”.
Il presidio malese non era stato nella possibilità di intervenire in tempo, né aveva ritenuto di farlo successivamente per timore di rappresaglie.
Un rapporto ufficiale delle Nazioni Unite, pubblicato dal New York Times il 17 novembre 1961, riferì che
“i membri dell’equipaggio italiano catturati nella mensa malese sono stati brutalmente picchiati, trascinati sui camion e portati nella prigione di Kindu, dove sono stati immediatamente fucilati e poi tagliati a pezzi dai soldati. Pezzi dì corpi sono stati distribuiti alla grande folla che si era radunata a guardare il massacro e alcune parti dei corpi sono state scagliate anche a non congolesi presenti. Due corpi mutilati sono stati trascinati attraverso la strada principale dì Kindu e sono rimasti esposti fino al 12 novembre. Tutti i resti dei corpi furono poi gettati nel fiume”.
Ci fu chi parlò di cannibalismo, denunciando un sordido mercato dei resti. L’Italia e il mondo inorridirono.
“Morire di pace” non ricerca i motivi di uno scoppio di violenza incontrollato. Non interessano al docente urbinate, che pure ricorda come gran parte della maggioranza di governo e le sinistre sostenessero che gli italiani sarebbero stati scambiati per gli odiati parà belgi, pagando un conto destinato ad altri. La tesi contrapposta addossava le colpe al comunismo: le guarnigioni fuori controllo erano al comando del gen. Gizenga, autoproclamatosi erede politico dell’eroe filosovietico dell’indipendenza congolese, Patrice Lumumba, morto da pochi mesi.
Il lavoro di Amoreno Martellini non cerca colpevoli o responsabili, è un’asciutta ricostruzione che si preoccupa semmai di dare gli elementi per farsi un’opinione sulle ragioni della strage.
Non ci si aspetti, inoltre, una macabra insistenza sui particolari più truculenti dell’eccidio, diffusi abbondantemente in tutti i resoconti dell’epoca, a nutrire la curiosità morbosa dell’opinione pubblica.
Questa vicenda, nella quale il nostro Paese ha sperimentava i primi momenti di elaborazione collettiva del lutto nazionale dopo una tragedia “di pace” a danno dei nostri militari all’estero, ebbe una conseguenza tra le altre: il 7 dicembre 1962 sarebbe stato firmato a Roma l’accordo che regolava il traffico civile e commerciale sulle rotte aeree tra Italia e Congo. Nel frattempo, le autorità congolesi avevano già chiesto ufficialmente al governo italiano l’invio in Africa di personale specializzato nell’istruzione di piloti aeronautici e di altri tecnici, per i comparti dei collegamenti ferroviari e stradali.
La missione di pace ONU non aveva avuto nessun effetto significativo sulla tribolata guerra civile in Congo, che proseguì fino al 1965, ma il sacrificio dei tredici italiani veniva monetizzato in termini di vantaggi economici e di “influenze” tecniche e commerciali.
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