Narrare la fine
- Autore: Raffaele Mantegazza
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Castelvecchi
- Anno di pubblicazione: 2018
Il sentimento più forte e più antico dell’animo umano è la paura. E la paura più grande è quella dell’ignoto. (Philip H. Lovecraft)
E dato che la morte è ignoto per antonomasia ne discende che il sentimento più forte è più antico dell’animo umano è la paura della morte. Per quanto mi riguarda il simil-sillogismo tanatologico non fa una piega. Evitiamo la morte, procrastiniamo il più possibile il momento ineluttabile della nostra morte – in quanto paventato salto nel vuoto, in quanto passaggio verso il nulla (espressione malevola dell’ignoto), in quanto idea impensabile, perfino, se riferita alla cancellazione definitiva del nostro io. Come fa notare acutamente Raffaele Mantegazza in “Narrare la fine” (Castelvecchi, 2018):
La preparazione alla morte può essere efficace quando si vuole, ma quando si è giunti davvero al momento estremo le cose si complicano. Ora sono io a dover morire e non un astratto personaggio di un manuale o di una Ars moriendi.
E poi cita uno stralcio sottile di “La morte di Ivan Il’ic” di Tolstoj che vale la pena riprendere a nostra volta:
Il sillogismo elementare che aveva studiato nel manuale del Kizevetter: Caio è un uomo, gli uomini sono mortali, Caio è mortale, per tutta la vita gli era sempre sembrato giusto, ma solo in relazione a Caio, non in relazione a se stesso. un conto era l’uomo-Caio (…) un conto era lui che non era né Caio né l’uomo in generale, ma un essere particolarissimo, completamente diverso da tutti gli altri esseri (…) Aveva mai sentito Caio l’odore del pallone di cuoio che il piccolo Vanja amava tanto? Aveva mai baciato la mano della mamma, Caio, e aveva mai sentito frusciare le pieghe della seta del vestito della mamma, Caio? E Caio aveva mai strepitato tanto per avere i pasticcini quando andava a scuola? (pag. 30).
Roberto Vecchioni, dal canto suo, restituisce il medesimo senso mettendola in poesia:
Nazarene chiare che parlan d’amore/ Nazarene scure che vanno lontano/ tutto questo vento, tutto questo sole/ tutto questo amarsi, frugrarsi/ lasciarsi, aggrapparsi, socchiudere porte/ richiuderle senza vedere.../ tutto questo dolore.../ via Giovanni Bormida, piazza Leopardi/ corso Indipendenza, via Giulio Rinaldi/ largo Cimarosa, viale Gino Crosa.../ dunque mi dicevi ma il rosso era nero/ ti cade il vestito, mi mangio la biro/ qualcuno ha gridato così, senza motivo/ Vogliono portarmi via/ vogliono portarmi via, dove?.
Già, dove? La domanda delle domande: dove? Incontro al niente o in braccio a qualche dio? In ogni caso, se questa è la fine, il senso della vita si striminzisce come sommatoria di eventi relativi, in attesa dell’ultimo respiro. Raffaele Mantegazza insegna Scienze Pedagogiche presso il Dipartimento di Medicina e Chirurgia dell’Università Bicocca (MI) e seguendo le tracce della nera signora (da che Danza macabra è stata Danza Macabra) ci regala questo saggio molto bello e molto denso di rimandi (letterari, filosofici, tecno-scientifici, storici, mitologici, artistici). Il concetto della fine viene affrontato a ciglia asciutte e senza alcuna intenzionalità ermeneutica, frammentato nelle declinazioni del “prepararsi”, del “passare”, del “piangere”, del “temere”, dello “sperare” e del “vivere”, in una circolarità/intrinsecità vita-trapasso che mi piace ricondurre al concetto heideggeriano di “essere-per-la-morte”.
Misurandosi faccia a faccia con lo sgomento, “Narrare la fine” mantiene intatto il mistero, la problematicità, il senso etico e teleologico che rimandano al concetto di morte, sottofondo immanente a ogni nostra azione, sogno, parvenza, sforzo, vittoria, abbaglio. Per chiudere, ancora con le parole di Raffaele Mantegazza:
La sfida di narrare l’indicibile è stata presa sul serio dalle culture proprio perché queste vedevano precisamente in quel luogo e in quel tema la loro culla. La ragione della loro esistenza. Scriviamo libri, dipingiamo quadri, componiamo sinfonie perché sappiamo che dobbiamo morire. E ogni nota, ogni pennellata, ogni rigo sono strappati alla morte.
Tra i testi più significativi ed esaustivi che mi sia capitato di leggere sull’argomento.
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