Nessuno
- Autore: Gwenaëlle Aubry
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Barbès
- Anno di pubblicazione: 2010
Gwenaëlle Aubry (francese, classe 1971) è filosofa e studiosa dei filosofi greci antichi. Dal 2002 è docente alla Sorbonne di Parigi. Dopo numerosi saggi di filosofia, nel 1999 esordisce in Francia come narratrice con il romanzo “Le Diable détacheur” (ed. Actes Sud). Successivamente pubblica “L’isolement” (ed. Mercure de France) e, dopo un soggiorno a Villa Medici a Roma nel 2007, pubblica “Notre vie s’use en transfigurations” (ancora ed. Actes Sud). Ma è nel 2009, con “Nessuno”, vincitore del Prix Fémina, che Gwenaëlle Aubry conosce il grande successo. Infine, il suo ultimo romanzo, “Partages”, già pubblicato in Francia nel 2012 ma non ancora tradotto in italiano, è stato candidato ai maggiori premi d’Oltralpe, compreso il prestigioso Prix Goncourt.
“Nessuno” (ed. Barbes del 2010, unico romanzo della Aubry finora tradotto in italiano) è la vita di un padre raccontata attraverso gli occhi della figlia.
Un padre mancato, mai completamente presente. Un padre bizzarro, patologicamente stravagante, eroe e vittima al medesimo tempo. Un padre fantasioso e allegro, ma riflessivo, cupo e preciso che annotava tutto della sua vita per non perdersi nulla, per non perdere se stesso. Ed è proprio attraverso questi svariati scritti (“agende di cuoio nero, quaderni di scuola, brutte copie, blocchetti di hotel, foglietti volanti, note scarabocchiate dietro uno scontrino”) che la protagonista ha tentato di ricostruire la sua vita, così difficile altrimenti da ripercorrere e da ricordare.
“Non si perde un padre, ancora meno un padre che era, o che si era, lui stesso perduto. E’ quando era vivo, forse che lo avevamo perduto, che non sapevamo più chi fosse, dove fosse. Ora che è morto, si rimette insieme ciò che ha lasciato, briciole e calcinacci seminati nelle foreste della sua angoscia, tesori e macerie, si costruisce il vuoto, si scolpisce l’assenza, si cerca una forma per ciò che, in noi, rimane di lui, e che è sempre stata la tentazione dell’informe, la minaccia del caos […]”.
La sintassi è ricercata, curata e profonda. I toni sono un po’ tristi, melanconici, con rari slanci di freschezza e spensieratezza.
Tuttavia ciò che rende interessante questo romanzo è la sua forma: il racconto si presenta infatti come un abbecedario: dalla A di Antonin Artaud, l’autrice prosegue per Bond (James Bond), passando poi ad Enfant (Bambino), a Hoffman (Dustin), a Pirata, a Traditore e concludendo, infine, con Zelig. In ciascuno dei ventisei capitoli, Gwenaëlle Aubry ci presenta un aspetto diverso della figura paterna, in cui mescola i suoi personali ricordi, alcuni scritti del padre, la descrizione di alcune fotografie ed il racconto di alcune testimonianze.
Poesia e delirio si intrecciano rendendo particolare e suggestivo ogni capitolo.
“Mio padre aveva cinque anni. Mio padre ha sempre avuto cinque anni […]. E’ a quell’età che ha conosciuto mia madre. L’ha sedotta perché faceva sempre il pagliaccio ed era bravo con i pattini a rotelle.”
“Un’estate, io avevo forse sette o otto anni, mia sorella tre o quattro, ha affittato una roulotte, un vecchio aggeggio traballante di legno telonato, tirata da una giumenta che chiamavamo Câline […]. Quello che mi ricordo è che in quella settimana tutto era riuscito e la mia gioia inquieta, e la mia incredulità.”
Una lettura che richiede attenzione, tuttavia interessante.
Nessuno.
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