L’arma del meme
Ai giorni nostri, grazie al meme hanno trovato un loro strumento per rompere il silenzio e battere l’indifferenza anche piccoli gruppi particolarmente agguerriti, che si attestano quasi sempre su posizioni controcorrente. Se la radio è morta e i restanti mezzi di comunicazione tradizionali (la televisione, il cinema, la stampa) sono in mano all’avversario, i propagandisti dell’era contemporanea scelgono di agire sui social, da Twitter a Facebook. Spesso si fanno beffe di una comunicazione impostata sull’emotività e la affrontano ponendosi come pratici e razionali, con messaggi brevi e provocatori: il “trolling” e appunto il meme, che è un contenuto digitale che si diffonde rapidamente (foto con didascalie, vignette, brevi filmati). La creatività satirica dei mematori è sorprendente e a questo argomento sono già stati dedicati libri interi: il meme è un contenuto che trasmette un messaggio immediato e che pur mantenendo una sua forma base caratteristica ha una capacità infinita di riadattarsi.
Il meme non è quindi solo puro intrattenimento, ma può diventare uno strumento di sfida alla pervasione operata dai media classici, anche se si tratta di affrontare un gigante con una fionda. In buona parte dell’Europa e in America settentrionale l’intero apparato mediatico è compattamente schierato dalla parte dei liberal, e la forza del meme si è rivelata la strategia adatta per chi sa di non avere l’egemonia comunicativa (definire “culturale” l’egemonia dei progressisti, a fronte dell’abbassamento dei contenuti su cui si fa forza la loro demagogia, è fuori luogo).
Nicolás Gómez Dávila e i suoi appunti reazionari
Chissà se nel 1954 aveva in mente di influenzare anche solo minimamente la realtà lo scrittore colombiano Nicolás Gómez Dávila (1913-1994), quando fu stampata in pochi esemplari la sua prima raccolta di aforismi reazionari. Di certo essi furono concepiti come esercizi di conservazione della lucidità in mezzo alla bufera:
“Il mio ardente desiderio: che questi appunti, prova tangibile della mia desistenza, della mia rinunzia, salvino dal naufragio di me la mia ultima ragione di vivere”.
Nicolás Gómez Dávila era un filosofo cattolico e controrivoluzionario e non si considerava un conservatore, bensì un reazionario, poiché rifiutava l’ottusità di chi voleva conservare anche gli errori e accettava l’innovazione positiva. La sua non è una biografia troppo emozionante: trascorse la maggior parte della vita nella sua città natale, Bogotá, concentrandosi sullo studio nella sua biblioteca. Critico sia verso la destra che verso la sinistra, il colombiano fu portatore di una visione aristocratica della politica, antiborghese e anticapitalista: “La borghesia non sa comandare” scrisse, “perché ha nel sangue l’odio per coloro che comandavano, conservando così, impresse nelle sue carni intime, le cicatrici della propria inferiorità millenaria”; “Il borghese odia il potere perché si sa inetto a comandare”.
I suoi pensieri sono sintetici e incisivi, ma ponendoli in relazione compongono la sua ideologia come le tessere di un mosaico. Ecco un’altra sua frase che completa i ragionamenti già trascritti:
“Un parlamento è non uno strumento di governo, ma un meccanismo per la presa del potere. Una classe sociale o un gruppo di uomini crea il parlamento per strappare il potere a un’altra classe o a un altro gruppo, ma non certo per governare”.
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A questo modello deteriore contrappose quello della nobiltà, benché irrecuperabile: “La società aristocratica: quella in cui il potere sta nelle mani di coloro che hanno il massimo dei doveri”; “Amare il popolo è vocazione da aristocratico; il democratico vede in esso solo una massa che lo può eleggere. La elezione popolare è la molla che fa scattare l’anima democratica, come pure l’asse del suo sistema”. Guardando alla Storia, affermava:
“Da quando morì a Capri l’ultimo aristocrate romano, solo il patriziato veneziano e la oligarchia inglese del XVIII secolo hanno conosciuto il grande stile della esistenza politica”.
Le conoscenze di cultura generale di Gómez Dàvila erano vaste e, avendo citato questo suo accenno alla Storia d’Italia, si deve riportare pure il giudizio che formulò sul processo con cui la Penisola aveva cercato di trasformarsi in uno stato nazionale moderno:
“La realtà italiana fu la città. In questa terra ogni vita autentica scaturì entro la cinta chiusa di mura cittadine. Città: dalle colonie elleniche della Magna Grecia fino a Roma, città mostruosamente dilatata che crea un impero come conglomerato di municipi, fino alle città del Medioevo e del Rinascimento. L’unità italiana è stata opera artificiale, suggerita dal nazionalismo europeo del diciannovesimo secolo e realizzata da stranieri: da piemontesi abitatori di frontiere. Che il pensiero di tanti italiani nel corso di secoli abbia sognato la unificazione è privo di importanza, se ricordiamo come Machiavelli dovesse inventarsi per eroe lo spagnolo Borgia, e fosse stato necessario che francesi, spagnoli e austriaci appianassero i contrasti perché la idea della unificazione cessasse di essere la mera aspirazione di qualche giovane disadattato ed eccitato. L’Italia è un paese che muore al suo nascere come nazione. Con questo, non sostengo che per ridarle la vita basti restituirla al suo precedente pluralismo, giacché qualsiasi forma politica non può esistere in qualsiasi momento della storia; ritengo però che solo in una congiuntura storica che ne ammetta la caratteristica forma ‘cittadina’ l’Italia possa rifiorire”.
Un modello d’ispirazione per i mematori?
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La critica che si può fare all’erudito ispanoamericano, al di là delle sue convinzioni, è la mancanza di speranza nei confronti di una riconquista, che si traduce in buona parte delle sue pagine in assenza di spunti costruttivi (quello riguardante l’Italia, che abbiamo riprodotto poche righe fa, è una delle migliori eccezioni). Egli è costantemente rassegnato. Per l’aforista il futuro è spesso prevedibile, mentre i progetti dei progressisti non conducono ad alcuna soluzione, bensì alla follia: “più che il futuro già prevedibile, a spaventarci è il futuro idealizzato dei nostri profeti progressisti. Del nostro probabile futuro l’aspetto più angoscioso è che persino il suo ideale ispira ripugnanza”.
Per la forma da lui scelta per veicolare i suoi ragionamenti, Gómez Dávila è stato definito anche il Nietzsche cristiano, appellativo che gradì, nonostante il suo sarcasmo nei confronti del filologo tedesco:
“Per vendicare gli attacchi di Nietzsche contro i suoi proseliti, Cristo prese la decisione, ironica, di creare i nietzscheani”.
Negli scritti del pensatore ispanico si può ritrovare l’ispirazione per dei meme? “Non vedo [...] in questi quaderni, il ripostiglio di singolari rivelazioni: mi contento di strappare alla mia sterile intelligenza poche faville fugaci”, diceva... ma sono faville incendiarie, se ancora oggi accendono le menti di tanti lettori in tutto il mondo. Del resto basta una veloce ricerca per scoprire che di meme su Gómez Dávila ne esistono già diversi, anche se assai meno di quanti ci si potrebbe aspettare.
Una frase breve da sola non è un meme, ma non c’è dubbio sul fatto che l’opera del polemista sudamericano possa rappresentare un’autentica miniera d’oro per i mematori dei nostri giorni, fornendo oltre a delle frasi facilmente riproducibili, le matrici per una infinità di nuove battute e soprattutto un esempio di stile.
Alcune tra le sue massime più taglienti
Alleghiamo all’articolo un florilegio con alcune delle massime più taglienti del controrivoluzionario:
“La storia comparata delle religioni è non il peggior nemico della religione, ma il più ricco arsenale di una robusta apologetica.”
“Mangiare è l’autentico imperativo politico.”
“Il popolo non si ribella mai contro il dispotismo, ma contro quella schiavitù in cui lo si alimenta male.”
“Non fu contro il Feudalesimo che si rivolse la Rivoluzione francese, ma contro la mancanza di esso.”
“Non sussiste ormai che una unica classe sociale: la borghesia. I nobili? Borghesi che si vergognano. I proletari? Candidati accaniti alla borghesia.”
“La ricchezza serve all’uomo moderno solo per moltiplicare la propria volgarità.”
“Il popolo è sempre vile; però, non dimentichiamolo, coloro che meno si credono popolo in genere lo sono di più.”
“Gli adepti di certi vizi sogliono formare gruppi rigidamente chiusi, somiglianti a sette filosofiche o religiose.”
“Stiamo attenti che il nostro amore per la diversità non giunga all’eccesso di amare, per la sua novità, quella forma che distruggerà la diversità.”
“È la nostra ignoranza la ragione fondamentale della inevitabilità della storia.”
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Nicolás Gómez Dávila: un aforista ispiratore di meme controrivoluzionari?
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