Noi siamo i veci. 15 storie per raccontare i 150 anni degli alpini
- Autore: Paolo "Gibba" Campanardi
- Genere: Storie vere
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: HarperCollins
- Anno di pubblicazione: 2022
“Sempre avanti, Alpini!”. Paolo Campanardi, per tutti “Gibba”, è l’autore di Noi siamo i veci. 15 storie per raccontare i 150 anni degli Alpini, antologia in questo anniversario della fondazione del Corpo delle Penne Nere, raccolte nel volume pubblicato nel 2022 da HarperCollins Italia.
Avrebbe voluto diventare un Alpino, ma con quest’omaggio alle mostrine verdi è come se lo fosse e più che onorario, visto che dimostra di comprenderne i valori, di condividerli, di esprimerli in questa summa di episodi e sentimenti esemplari. Di soffrire per il sacrificio di tanti di loro, di impegnarsi a ravvivare la memoria del contributo offerto al nostro Paese, alla dignità degli Italiani.
Non ancora quarantenne montanaro, ricercatore, recuperante, appassionato di storia e storie locali, un vero esploratore dei nostri giorni, ha voluto raccontare le vicende di quelle “rocce”, che in un secolo e mezzo sono stati uomini, ma da 24 anni vedono tra loro tante ragazze degne di marciare a passo lento, con gli scarponi chiodati e la penna orgogliosamente sul cappello di feltro. Difficile trovare gente più solidale e fraterna, tanti con una comunicativa travolgente, altri di poche ma giuste parole, qualcuno apparentemente burbero.
Paolo Campanardi è nato 36 anni fa sulla sponda bresciana del lago di Garda. Soprannome e nome d’arte: Gibba. Fa la guida escursionistica e storica e da sempre si occupa di ricerca militare e recupero di oggetti bellici delle due guerre mondiali. È presidente dell’associazione MURE (Museo Recuperanti 1915-1918 Alto Garda Bresciano), a salvaguardia del patrimonio della Grande Guerra. Sul canale televisivo DMax conduce il programma Metal Detective, in onda dal 2020.
Ha dedicato questa sentita antologia alla fonte di ispirazione personale, Sergio Bentivoglio: suo il cappello ritratto in copertina, ha posato lo zaino nel 2016, un vecio del battaglione Tirano, classe 1946, che del valore alpino ha fatto il suo stile di vita, aiutando a mantenere sempre viva la memoria del Corpo.
Anch’io da quasi dieci anni, grazie a Sergio, porto avanti questo oneroso compito con la stessa passione, nella speranza che quanto successo possa non essere mai dimenticato. La moglie Giovanna mi ha fatto dono della sua penna, che oggi orna il cappello che indosso.
Sono quindici storie, che vanno dal 1872 della prima penna sul cappello a bombetta di allora, alle missioni in Afghanistan, cessate da poco. Tutte vicende che hanno in comune il rispetto di principi saldissimi: responsabilità, scelta, appartenenza, che a loro volta si coniugano con lealtà, coraggio, altruismo, generosità.
Ed ecco la storia di Giuseppe Perrucchetti, il papà degli Alpini, sebbene non il solo a studiare la creazione di reparti specializzati di truppe da montagna. E poi il capitano Pietro Cella, originario del Parmense, prima medaglia d’oro del Corpo, sul monte Raio, nella battaglia di Adua in Etiopia, nel 1896. Si passa anche dal primo Alpino paracadutista, Arrigo Barnaba, tenente friulano classe 1891, lanciato in missione di spionaggio nell’ottobre 1918 oltre le linee del Piave, in provincia di Udine.
Un cenno a Mario Rigoni Stern è dovuto - il Sergente nella neve nella ritirata dal fronte del Don in Russia 1943 - quanto un pensiero al caporalmaggiore del 7° Reggimento Alpini Matteo Miotto, colpito in una parte del corpo non protetta dal giubbetto, nell’avamposto Snow di Buji, nel distretto del Gulistan. È stato la trentacinquesima vittima italiana delle operazioni di pace in Afghanistan, in un impegno durato vent’anni, dal 2001 all’estate 2021, costato all’Italia 53 soldati uccisi da ordigni esplosivi, bombe artigianali, attacchi terroristici, incidenti stradali, brevi combattimenti con armi da fuoco e colpi di cecchino.
Nel capitolo sulle azioni di guerra, tocca alla strage di brave Penne Nere in Abissinia, sempre nella sciagurata spedizione del 1896: dei 954 partiti dall’Italia rientrarono solo 92. Nel 15-18, sulle Alpi, spazio agli scalatori del capitano Sala, i rudi, brontoloni e un po’ strafottenti Mascabroni, alla conquista del Passo della Sentinella. A seguire, il calvario di veci e bocia sull’Ortigara, nel giugno 1917.
Nel suo Le scarpe al sole, il tenente alpino e scrittore Paolo Monelli descrive drammaticamente lo spettacolo ripetuto per giorni su quelle cime tenacemente difese dagli austriaci e battute a volte da fuoco amico. Quando i battaglioni uscivano a combattere, prime a rientrare erano le barelle, con i feriti e i morti. Dopo qualche ora tornavano i pochi superstiti. Tutti gli altri restavano a faccia in giù o contorti nello spasimo sulla roccia chiara.
La conquista da parte del Battaglione alpino Piemonte di monte Marrone, strappato ai Tedeschi nelle Mainarde, tra Lazio e Molise, segna il primo successo del Corpo italiano di Liberazione inquadrato tra gli Alleati in Italia, cobelligerante dopo l’armistizio del 1943 e fino alla primavera del 1945.
Morte e distruzione non sono prerogative della guerra: dovunque servano braccia, tanta organizzazione e un sorriso arrivano gli Alpini, in servizio o in congedo. Gibba ricorda l’abnegazione nei soccorsi dopo il disastro del Vajont nel 1963 e il terremoto dell’Aquila del 2009, ma non si contano le calamità dopo le quali gli alpini hanno risposto:
Ci siamo!
Non dimentica don Carlo Gnocchi, cappellano volontario nella campagna di Russia e apostolo dei mutilatini, bambini segnati dal conflitto. E arriva fino a Iroso, l’ultimo mulo che ha completato la carriera militare nella Brigata Cadore, trent’anni fa, da fedele commilitone.
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