Occhio di bue
- Autore: Claudio Sottocornola
- Genere: Filosofia e Sociologia
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2021
Non è che se non si crede a niente, non c’è niente. Bisogna trattare il niente come se fosse qualcosa.
Andy Warthol
Poco più di niente, ecco ciò che rimane in apparenza del sotteso para-significante della cultura pop. Questo è quello che penso io: a partire dalla metà degli anni Ottanta la pop culture si è resa disponibile a uno svilimento di senso (artistico, produttivo, ideativo) e al massimo della sua propagazione si è per contrappasso striminzita nei fiammeggi, uniformata in basso. Da Funari, Pronto Raffaella, e le commedie erotiche con Banfi & co. in poi (per limitarmi a qualche esempio), i 15 minuti di popolarità garantiti a chicchessia (Andy Warthol) sono esponenzialmente diventati 30, poi 60, quindi reiterati ab libitum. Nella stragrande maggioranza dei casi diventati, oggi via social, ambiti comunicativi di vacuità, declinazione apodittica di inessenziale, di luogo comune, di vuoto a perdere contenutistico.
Ci vogliono stomaco, nervi saldi e tenacia filosofica per indagare l’attualità di quel che resta del pop. Con un’ostinazione quasi diogeniana Claudio Sottocornola (docente di filosofia e filosofo di popular culture) continua a traversare sentieri trasversali all’ermeneutica dei costumi e dei linguaggi artistici, e questo suo nuovo compendio, Occhio di bue (Marna, 2021), non fa eccezione. I numeri sono da cimento titanico: 628 pagine di testo, 96 di foto, un DVD-Rom con 435 tracce MP3, estratti musicali delle lezioni-concerto per le quali Sottocornola è alquanto noto. Per dirla in parole povere, il libro è un muscolare zibaldone di quanto prodotto sin qui. Gli estratti dei già poderosi Varietà e Saggi pop (Marna, 2016 e 2018), raccolte di interviste, saggi sulla canzone, sullo spettacolo, sui modi di vivere estrinsecazione dell’ espressionismo pop, di cui Sottocornola si fa cantore critico, ispessiscono le pagine di Occhio di bue. Il cui senso ultimo è forse rintracciabile a partire dalla metafora del titolo:
“L’occhio di bue è quella potente lampada che si usa in ambito teatrale, e soprattutto musicale, per proiettare un fascio di luce concentrato e altamente definito sul performer in scena, cantante, ballerino o attore, che viene costantemente seguito da un operatore che ne illumina la presenza e i movimenti sul palco. È una sorta di immagine-metafora della sua centralità, del suo essere in quel momento manifestazione, cassa di risonanza, suo microcosmo e monade. E dunque l’occhio di bue, in quanto ritaglia e definisce un soggetto come paradigmatico rispetto ad altro, sta a rappresentare efficacemente quel fenomeno che nel contesto della contemporanea cultura di massa noi chiamiamo successo, equivalente della gloria nello scenario post-moderno”.
Il grandangolo filosofico costituisce la lanterna attraverso cui Claudio Sottocornola inquadra gli specifici in esame, leggibili a saltare a seconda delle curiosità intellettuali o gli interessi di ciascuno. Essendomi disamorato della forma-canzone contemporanea (per dirla con Battiato,“la musica contemporanea mi butta giù”) mi concentro soprattutto sui passaggi (articoli o interviste) relativi all’analisi delle ricadute socio-ontologiche (per così dire) della cultura pop. Il quadro d’insieme fissa al contempo i contorni di una crisi teleologica e le coordinate di un saggio stratificato, meritevole di attenzione per via della riflessività mai scontata di cui è impregnato. Dal rapporto biunivoco pop/filosofia discende l’ennesima dichiarazione esplicativa dello scrivere-cantare-speculare-divagare di Claudio Sottocornola:
“Il pop è stato […] la finestra, l’habitat, il luogo da cui far partire una riflessione, per me senz’altro più stimolante perché più legata alla attualità della vita […] un espediente per parlare di ciò che mi interessa davvero, la vita e il suo senso”.
Occhio di bue: Il filosofo che canta racconta la sua visione del pop e il declino dei tempi
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