Il tempo è la dimensione della realtà che trascende la capacità dell’uomo di poterla percepire in tutta la sua interezza e rappresenta per l’uomo un’aspettativa di vita verso cui egli può solo protendere istintivamente, diventando purtroppo alla fine consapevole che essa è una vana illusione.
Nel corso della storia l’uomo ha sempre cercato di dare una risposta agli eventi della propria vita dialogando con se stesso nell’attesa che il lato nascosto del proprio io proiettasse alla coscienza la chiave di lettura della realtà. È come se l’uomo avesse voluto trovare una dimensione più consona alla sua vita in modo da diventare padrone del suo avvenire, dimenticando spesso i trascorsi negativi della sua passata esperienza. Ma dobbiamo pur considerare che l’esperienza di ogni persona è particolare e per quello che attiene alle proprie scelte essa può essere interpretata spesso come una reazione alla mancanza di libertas, soprattutto se consideriamo quest’ultima come un’aspirazione autentica, cioè non condizionata da stereotipi in funzione dei quali si finisce per costruire una chimera di se stessi, proiezione delle proprie paure nascoste.
Orazio: la poesia romana dalla libertas al Principato
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A differenza dei neoteroi che avevano guardato alla poesia alessandrina come a un possibile metodo per il perfezionamento del labor limae, Quinto Orazio Flacco si distacca da questi poeti preferendo la lirica greca arcaica allo scopo di avvicinarsi a un pubblico più vasto sebbene la forte limitazione della libertas sopraggiunta con l’avvento del Principato lo spinga verso uno stile formale e più consono ai mutati numeros animosque (“i metri e lo spirito”).
Nelle Satire, la concezione della vita di Orazio perviene alla conquista di una serenità interiore basata sul senso della misura e dell’autosufficienza del saggio:
Hoc erat in votis: modus agri non ita magnus,
hortus ubi et tecto vicinus iugis aquae fons
et paulum silvae super his foret. Auctius atque
di melius fecere bene est. Nil amplius oro,
Maia nate, nisi ut propria haec mihi munera faxis
(Satire, libro II, 6, vv.1-5)[Era quel che volevo: un pezzetto di terra così
con l’orto e col fontanile perenne vicino alla casa
e un poco di bosco per giunta. La provvidenza ha fatto
di meglio e di più. Va bene e altro non chiedo,
o figlio di Maia, che questo: che tu li faccia miei doni davvero.]
Questa condizione dell’animo è indispensabile alla scrittura delle Odi, che rappresentano la sintesi tra il background culturale del poeta e la propria esperienza di vita. Due sono i filoni che, implicitamente intrecciati, emergono dalle lettura delle Odi:
- la lirica personale, che trae spunto dalla vita dell’autore ovvero dalla riflessione sulla pace interiore dell’uomo, sul tempo e sull’impossibilità di sfuggire alla morte,
- la lirica civile e religiosa, che trae spunto dal concetto di mito della cultura greco-romana e dal contrasto derivante tra il ricordo della perduta libertas delle guerre civili e la nuova condizione del Principato.
Orazio: il saggio a confronto con i problemi della società
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Si può parlare di versi che circoscrivono il nostro pensiero? È possibile che il pensiero sistematizzato dia luogo a una scrittura metrica raffinata?
In effetti ritengo che le risposte a queste domande debbano essere considerate alla luce delle nostre esperienze, soprattutto quando queste sono latrici di forti emozioni derivanti spesso dal ricordo dei nostri contrasti interiori che debbono essere stati prima necessariamente sublimati in nome dell’equilibrio tra il nostro io e la realtà contingente. E allora tutto diventa occasione per ricercare, al di fuori di noi, i nostri bisogni per riuscire così ad appagarci interiormente e arrivare alla pace dei sensi.
Purtroppo il tentativo idilliaco di Orazio di raggiungere la pace interiore si infrange contro una realtà autentica solo in apparenza per il saggio, poiché questi vive ancora col pensiero rivolto alla libertas repubblicana che aveva consentito all’uomo di confrontarsi direttamente con i problemi della società e di trovare grazie ad essi la forza interiore per affrontare il futuro. Con l’avvento del Principato le speranze di dedicarsi al futuro decadono insieme alle coscienze dei comuni destini della società e ciò spinge il saggio a un’analisi introspettiva che finisce per mutare la sua disposizione dell’animo a proporsi come arbitro o sostenitore di specifiche istanze politiche:
Altera iam teritur bellis civilibus aetas,
suis et ipsa Roma viribus ruit:
quam neque finitimi valuerunt perdere Marsi
minacis aut Etrusca Porsenae manus;
aemula nec virtus Capuae ne Spartacus acer
novisque rebus infidelis Allobrox,
nec fera caerulea domuit Germania pube
parentibusque abominatus Hannibal,
impia perdemus devoti sanguinis aetas,
ferisque rursus occupabitur solum.
barbarus heu cineres insistet victor et Urbem
eques sonante verberabit ungula,
quaeque carent ventis et solibus ossa Quirini,
nefas videre! dissipabit insolens
(Epòdo 16, vv.1-14)[Ormai un’altra generazione s’è persa nelle guerre civili:
il suicidio di Roma con le sue armi medesime!
Non c’eran riusciti i Marsi sui nostri confini,
neppure l’esercito etrusco del minaccioso Porsenna,
né Capua rivale di valore, né l’accanito Spartaco o l’Allobrogo
traditore dei torbidi giorni, non l’aveva piegata la Germania
fiera gioventù dagli occhi chiari, neppure Annibale
esecrato dai nostri antenati. Saremo noi a distruggerla,
maledetta generazione promessa alla morte!
ne occuperanno il suolo ancora le fiere;
calpesterà le ceneri dell’Urbe un vincitore barbaro;
la batterà lo zoccolo sonoro del suo cavallo
e per oltraggio disperderà – visione d’orrore –
le ossa di Romolo poste al riparo di vento e sole.]
In tal senso Orazio trae spunto dagli avvenimenti della vita sociale contemporanea, che inconsciamente si vanno sostituendo al substrato dei ricordi della vita passata, i quali egli riesce a plasmare così in una nuova dimensione immanente.
È da sottolineare in tal senso lo sforzo immaginifico del poeta nella produzione scritta, la quale diventa allora espressione di quella medietas calata nel proprio contesto storico e sulla quale si modella la scrittura stessa:
Herculis ritu modo dictus, o plebs,
morte venalem petiisse laurun
Caesar Hispana repetit penatis
victor ab ora.
unico gaudens mulier marito
prodeat iustis operata divis,
et soror clari ducis et decorae
supplice vitta
virginum matrem iuvenumque nuper
sospitum. vos, o pueri et puellae
iam virum expertae, male ominatis
parcite verbis.
Hic dies vere mihi festus atras
eximet curas; ego nec tumultum
ne mori per vim metuam tenente
Caesar terras.
(Odi, libro III, XIV, vv.1-16)[Se pure la voce diceva avesse cercato l’alloro
che con la morte s’acquista, o popolo, al modo di Ercole,
dalle contrade di Spagna ai suoi penati ritorna
Cesare con la vittoria.
La sposa del grande marito s’affaci dai riti divini
con la sorella del condottiero e con le madri di vergini e giovani
ora salvati, matrone incoronate di supplice benda.
Voi trattenete, fanciulli e fanciulle,
che già conoscete il marito, parole d’augurio infelice.
Questo mio giorno festivo davvero saprà cancellare le angosce;
io non dovrò più temere disordine e morte violenta
se Cesare regge la terra.]
Orazio e la “scrittura rallentata”
Per evitare ridondanze nei versi, i quali rappresentano per il poeta il punto di incontro tra la lirica greca arcaica e quella dei neoteroi, e affinché la seconda si rifletta sulla prima evitando così un inutile sforzo di identificazione di falsi miti derivanti dal labor limae, Orazio percorre la strada del modello archetipo della lirica greca arcaica riconoscendo in tal senso sia la propria identità sia la funzione civile e morale della poesia, rappresentando queste due condizioni del moderno poeta-vate.
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Segue poi la riflessione più insistita delle Epistole, che si dipana nel periodo della maturità del poeta arrivando a rappresentare un’intensificazione delle condizioni della poesia precedente e, allo stesso tempo, la distensione dei contrasti interiori del poeta, conscio perciò di aver raccolto i frammenti della propria esperienza e avendo avuto poi cura di nominarli, ovvero riuscire a controllarli attraverso il loro possesso.
Quello che intendo dire è che Orazio ha operato inconsciamente un’ulteriore risistemazione delle istanze della lirica arcaica greca servendosi però del metro dei neoteroi per poterla padroneggiare. E quindi, tenendo conto dell’individualismo che caratterizza il Principato, Orazio ha favorito un ampliamento della poesia che mi sento tranquillamente di definire scrittura rallentata, favorita dall’esperienza che ha sempre permesso al poeta di operare una scelta, ovvero di conservare la propria identità anche di fronte ai cambiamenti della società:
Prisco si credis, Maecenas docte, Cratino,
nulla placere diu nec vivere carmina possunt
quae scribuntur aquae potoribus. ut male sanos
adscripsit Liber Satyris Faunisque poetas,
vina fere dulces oluerunt mane Camenae.
laudibus arguitur vini vinosus Homerus;
Ennius ipse pater numquam nisi potus ad arma
prosiluit dicenda.
(Epistole, libro I, XIX, vv.1-8)[Per credere al vecchio Cratino m’insegni tu, Mecenate,
che a lungo non posson piacere né vivere quelle poesie
che sono scritte da astemi. Da quando i poeti esaltati
Bacco volle tra satiri e fauni, quasi sempre al mattino puzzarono
le dolci Muse di vino. Dagli elogi del vino si arguisce
che Omero era dedito al bere. Il venerabile Ennio medesimo
mai si levò a cantare battaglie se non dopo belle bevute.]
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Orazio e la poesia, fra esperienza individuale e crisi del suo tempo
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