Ortigara 1917
- Autore: Stefano Gambarotto
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2017
“Venti giorni sull’Ortigara, senza il cambio per dismontar…”
Una canzone, Ta pum, esprime la cupa malinconia evocata al solo nominare la “montagna maledetta”, come la chiama Stefano Gambarotto, il divulgatore di storia militare che alla battaglia lassù ha dedicato una delle più ricche monografie fotografiche in circolazione, “Ortigara 1917”, pubblicata nel centenario dalla casa editrice trevigiana Editoriale Programma (pp. 206, euro 10,00 euro).
Chiamiamo Monte Ortigara un complesso di cime alpine, sui duemila metri di altezza, nell’Altopiano dei Sette Comuni, in provincia di Vicenza, al confine col Trentino. Due lunghe settimane per conquistare la vetta e tenerla. Solo cinque ore per perderla. 25mila italiani caduti, feriti o prigionieri, il bilancio di una battaglia dolorosissima della Grande Guerra, nel giugno 1917.
Gli assalti cominciarono il 10. Alpini, fanti e bersaglieri allo scoperto, contro truppe austroungariche ben protette in trincee blindate e caverne. La quota più alta, 2015 metri, venne occupata il 15 giugno e fu perfettamente inutile, dal momento che i reparti sui fianchi non riuscirono a proseguire oltre, in un settore che così risultava del tutto indifendibile da un ritorno del nemico. Che infatti non mancò, ma venne condotto con metodo e risparmio di uomini. Gli austriaci non ci provarono subito. Martellarono la quota con i grandi calibri, logorando i difensori. E quando salirono all’attacco, la notte tra 24 e 25 giugno 1917, lo fecero con pochi incursori armati di terrificanti lanciafiamme, annientando i nostri.
Si fa presto a dire che è stata una pagina di sangue versato inutilmente, è verissimo ma non rende lo strazio che rappresentò per migliaia di giovani italiani già solo il percorso obbligato per tentare di andare a prendere quelle cime. Era un’offensiva da evitare, perché i risultati si potevano giudicare sterili in partenza. Si doveva scendere nel Vallone dell’Agnellizza e risalirlo alla costante vista del nemico, senza riparo dal tiro delle posizioni circostanti. E non si sarebbero mantenute in ogni caso quelle cime “imprendibili”, strappate con tanto sacrificio, se le linee nemiche non fossero state spinte molto più indietro.
Non bastano gli aggettivi, sono inefficaci, ma il lavoro di Stefano Gambarotto è fatto col cuore, oltre che con la testa. È un contributo saggistico che privilegia la narrazione, il racconto. Nei testi lucidi, scorrevoli, è sempre attento agli sviluppi dal basso, dalla prospettiva “umana”, evitando una ricostruzione freddamente tecnicistica. È una storia di enormi sacrifici, di ragazzi gettati allo sbaraglio, di vite perdute per niente.
L’autore ha il merito di sentire e soffrire quelle vicende, quasi ne fosse protagonista e le tante rare immagini in bianconero conducono i lettori sul posto. Non c’è pagina, tranne quelle delle conclusioni, che non presenti almeno una foto, piccola o grande, dei luoghi, dei protagonisti, dei combattimenti.
Tornando all’azione, non si può dire che fosse militarmente ingiustificata. Voleva eliminare un forte saliente nemico che minacciava la pianura veneta, ma non andava condotta in quel modo, continuata a dispetto dei chiari presupposti d’insuccesso e portata avanti nonostante le perdite che si sommavano pesantemente ogni giorno.
L’Ortigara era un’eredità dell’unica offensiva austroungarica, la Strafexpedition, del maggio 1916, dal Trentino. Dopo l’esaurimento dell’avanzata, contenuta a fatica dagli italiani, il Comando Imperiale aveva disposto un intelligente disimpegno, il 24 giugno 1916, che aveva consentito di arretrare indisturbati su posizioni forti e facilmente difendibili. Continuavano però a restare una minaccia per Cadorna, che vedeva le linee nemiche gravitare pericolosamente alle spalle del nostro sforzo maggiore al confine isontino-carsico.
Si scontravano due modi opposti di concepire la guerra di trincea, messi in luce da Angelo Gatti, allora ufficiale del Comando Supremo. Agli austriaci gli uomini mancano: si resiste fino a quando si può, si fa pagare un caro prezzo al nemico, lo si logora e poi, un colpetto dopo l’altro, “poca gente, scelta, ardita”, si recupera il perduto. Gli italiani, di contro, sanno bene che sull’Ortigara o si va avanti o si deve tornare indietro, battuta com’è da un arco di monti a 180° gradi. Ma passa un giorno e le truppe resistono. Si portano su piccoli cannoni, si fanno muretti a secco, roba inutile. Se ci siamo stati ieri e oggi, ci potremo stare domani, fino all’avanzata, che non si fa e le truppe subiscono danni. Passano otto giorni, il nemico fa calare la vigilanza e si prepara bene, apre un fuoco d’inferno con i calibri pesanti, poi va all’assalto e prende la posizione e i difensori.
Due anni di guerra non avevano insegnato niente ai nostri comandi, nessun ammaestramento tattico su come usare masse di truppe o, meglio, non usarle.
Cadorna preferiva buttare la croce addosso a qualche generale poco determinato, addebitare l’insuccesso alla sfortuna e soprattutto ai soldati, poco propensi a morire.
Così, non si può che arrivare diritti a Caporetto, in bocca ad una sconfitta disastrosa.
Ortigara 1917. La montagna maledetta
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