Panopticon
- Autore: Jenni Fagan
- Genere: Gialli, Noir, Thriller
- Categoria: Narrativa Straniera
- Anno di pubblicazione: 2019
Fidatevi di quanto sto per dirvi: Jenni Fagan con Panopticon (Carbonio, 2019) narrativizza come meglio non si potrebbe la sintomatologia positiva e negativa legata al disturbo di personalità in un soggetto a doppia diagnosi (cioè dedito anche al consumo di alcol e droghe).
Anais Hendricks - la giovane anti-eroina del suo romanzo - risulta essere un personaggio non solo credibile, ma anche difficilmente rimovibile dalla memoria del lettore. In altre parole: difficile scordarsi di Anais Hendricks, scricciolo di ragazza dalla testa strana e dalla pelle dura, che a quindici anni ha alle spalle un excursus di disagi-esperienze limite-consumo di droghe-adozioni-psicosi-reati, come nemmeno Papillon al meglio della forma.
Dal canto suo l’universo semi-coatto di Panopticon non brilla certo di virtù: è l’istituto a quattro piani iper-controllante (il nome stesso la dice lunga, viene dal greco pan=tutto + opticon=visivo, significa più o meno “visione integrale”) dove la criminale in fiore finisce in attesa che il giudice si pronunci sul suo futuro. L’accusa è grave: aggressione di una poliziotta che, a causa delle percosse, versa in uno stato di coma profondo. In merito all’episodio, nella testa di Anais, il buio più assoluto. Ricorda solo che quel giorno era strafatta al punto che “avrebbe potuto sbudellare un esercito”.
Panopticon, dicevo: sorge nella periferia di Edimburgo per accogliere ragazzi e ragazze affidati al controllo di psicologi e servizi sociali. Ragazzi e ragazze come Anais: cioè ragazzi difficili, schizzati, vandalici, abusati, fragili, bruciati, irrilevanti, etero e auto aggressivi, per autodifesa, disperazione, o richiesta di aiuto. Una struttura che sembra fatta apposta per autorizzare la più fervida delle ideazioni paranoiche (pag. 11):
Sono un esperimento. Lo sono da sempre. È una certezza, un’impudenza, un fatto. Mi osservano. Non solo nelle relazioni scolastiche o degli assistenti sociali, nelle celle del tribunale o delle stazioni di polizia – loro sono dappertutto e mi osservano.
Da quanto si può dedurre da quest’incipit, il destino di Anais sembra dunque già scritto: a parte sballarsi con tutto quello che le capita sottomano (violenza compresa), le alternative per lei, almeno finché dura, rimangono le solite: legare coi tipacci (apparenti) della sua specie o destino; rifugiarsi in una realtà potenziale, dove ossessioni e tenerezza, vissuto e allucinazioni, coabitano come soltanto in una mente fertile, ma segnata da una doppia prerogativa borderline è possibile coabitare (la prerogativa “fisiologica” tipica dell’adolescenza, e quella “patologica” della schizofrenia).
Narrato in straordinaria soggettiva, il romanzo si dispiega dunque in equilibro tra piano reale e piano onirico-allucinatorio e proprio in questo reiterato uscire-entrare senza fratture dagli ambiti percettivi di Anais Hendricks risiedono la grazia e il punto di forza insieme di Panopticon. La scrittura di Jenni Fagan ha del miracoloso - tanto è diretta, feroce, cupa, sensibile, scattante -, in grado di restituire dal “dentro” il microcosmo borderline della giovane protagonista, fino all’apoteosi oggettiva del prefinale anarco-dionisiaco-liberatorio. Un occhio ai Pink Floyd di The Wall, uno al Ken Kesey di Qualcuno volò sul nido del cuculo, punto di arrivo o forse di ripartenza ontologica di Anais.
Non voglio e non posso rivelarvi altro, la prendo alla larga dicendo che a volte l’adesione alla vita – pur se a una vita contro-tendente -, combinata a un intelletto allo stato vigile (al netto degli acidi, dei crack, delle anfetamine, della marijuana di cui Anais fa largo consumo) possono risultare chiavi di volta per scompaginare le carte del destino e pareggiare i conti. O, se non altro, per provarci.
Un ulteriore sguardo-rivelatore al tratto verista di Jenni Fagan. Perché lo merita e perché rende l’idea di come e sa incidere la sua prosa. Il dialogo che segue è rintracciabile alle pagine 218 e 219:
E se in vece non ci fosse nessun esperimento? E se la mia vita fosse così insignificante che non fregasse proprio niente a nessuno?
- Come ti butta, razza di cretina -. Shortie si affaccia alla finestra e si arrampica fuori.
- A posto -.
Sono felice. Felice di vederla. Felice di non starmene seduta qui come una disadattata per tutta la notte.
- Sei già andata a trovare quel tipo, il monaco, per le tue crisi di identità? -, mi chiede lei.
- Non ancora -.
- E poi come fanno a dirlo, che hai una crisi di identità? - chiede.
- Boh. sono cominciate quando avevo otto anni. Alla fine l’ho detto a Teresa -.
- Cosa, che avevi le crisi di identità? -
- A-ah. Era tipo un esaurimento nervoso, ma non proprio -.
(…)
- Come facevi a sapere che era quello? -
- Non lo so. Mi guardavo allo specchio e c’era questa ragazzina stramba che non sorrideva, e quando la guardavo negli occhi mi sentivo strana e imbarazzata…tipo come se avessi dentro un’estranea -.
- È normale - dice Shortie.
- Mi prendevo a morsi da sola -.
- Dovevi prendere a morsi gli altri -.
- Facevo pure quello -.
- E quindi che hai detto a Teresa? -
- Le ho detto che non sapevo chi ero, che pensavo di essere pazza -.
- E lei che ha detto? -
- Ha detto: hai otto anni, che cazzo ne vuoi sapere di chi sei? È allora che ho cominciato a fare surf sul tetto dell’ascensore -.
In tanti hanno battezzato - e altri battezzeranno - Jenni Fagan come "la nuova Irwin Welsh". È tutt’altro che un paragone irriguardoso, ma non prendetelo alla lettera: la scrittura di Jenni Fagan è più stratificata. Restituita, nella fattispecie, dalla luminosa traduzione di Barbara Ronca.
Panopticon
Amazon.it: 5,00 €
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Panopticon
Lascia il tuo commento