Perturbanti congiungimenti
- Autore: Gianfranco Sorge
- Categoria: Narrativa Italiana
- Anno di pubblicazione: 2019
Tutte le volte che leggo un romanzo di Gianfranco Sorge, dottore in psichiatria, mi chiedo se la storia sia scaturita dai racconti dei suoi pazienti, da quelli che immagino sdraiati sul lettino a esternare ogni più profonda e intima "perversione", ogni desiderio inespresso, ogni follia di una mente in apparenza stabile.
Credo (o mi piace crederlo) che qualcosa del suo lavoro tra le pagine debba finire, senza dubbio ripulito da riferimenti specifici, ben impastato di fantasia e finzione. Non è raro l’uso di terminologia sapientemente tecnica e medica, quasi ci trovassimo sotto il naso, rielaborato, il resoconto di una diagnosi e le scene sembrano costruite nelle contorte viscere delle persone, più che nel mondo vero e proprio. La città quasi scompare, non è descritta, rimane un pallido involucro irreale; lo studio dell’avvocato è filtrato attraverso gli occhi di chi lo osserva, perché quello che conta sono le vibrazioni, le anime, le parole, i pensieri. Tutto serve a infiorare il reale, a cercare di conoscerlo e modificarlo, anche l’arte che si fa patimento, dispendio di energia, strada in salita verso la ricerca di uno stile. La sofferenza è ovunque, anche negli occhi supplici degli animali che finiscono cucinati sulla tavola e il rapporto col cibo è parimenti tortura, affanno, squilibrio. E, naturalmente, non mancano i sogni.
Musilia, la protagonista di Perturbanti congiungimenti (goWare, 2019), naviga a vista in un’incapacità estrema di crescere, di vivere la sessualità, di scegliere un uomo che la faccia felice. Ma anche gli altri personaggi sono strapieni di problemi, di stranezze, a partire da Ulderico Acciai, l’incrollabile avvocato con il mito della virilità e quella sua abitudine di "usare" le donne, oppure il timido e impacciato Riccardo, che non sa esprimere il suo amore alla donna che ha sempre a fianco, o Giulia, la madre di Musilia, dipinta nella sua preoccupazione estrema di non sbagliare l’educazione da impartire alla figlia. Sono tutti uomini (e donne) senza qualità, proprio come quello narrato da Musil, l’autore che come un sottofondo accompagna tutto il romanzo. Forse l’unica che si salva è la pacata e matura Teresa, che in sordina avanza pian piano nel cammino della sua vita, quasi l’autore volesse avvertirci che le emozioni troppo violente e acerbe possono distruggere, talvolta annientare.
Tutto è estremizzato, il possesso della persona amata si fa desiderio totalizzante, in un’altalena tra offuscamento e lucidità. Simbolismi, feticismi, sogni, regressioni primordiali (i piedi assimilati a mammelle), danze tribali, esasperazione della virilità, malattia, aspirazione alla religione. E a un tratto, improvvisamente, la maternità, vissuta come crescita ("Un bambino l’avrebbe guarita dall’essere bambina").
Tutta la storia di Musilia è l’ascesa verso un picco di pazzia lucidamente spiegata, come se il dottore-scrittore ci avvertisse che non c’è confine tra questa e la sanità mentale. E, dopo questo attimo estremo (che non voglio svelare) che è per lei anche purificazione, la strada torna indietro, permette di ridiscendere un po’ verso il reale, di aspirare a una vita come quelle che guardiamo sempre dalle finestre illuminate delle case, quando ci troviamo a passare sulla strada.
Perturbanti congiungimenti
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